preview for Special: Power Woman

Nascere in una famiglia di artisti che lo erano già o che lo sono diventati poi nel tempo. È successo a Patricia Arquette, classe 1968, figlia e nipote di due grandi attori americani, Lewis e Cliff Arquette, attrice anche lei assieme ai suoi quattro fratelli - Rosanna, Richmond, David e Alexis - quest’ultima nata uomo con il nome di Robert, poi divenuta donna e icona transgender, morta nel 2016. “È stata tra le prime ad avere coraggio in un mondo come Hollywood che può essere spietato”, ci racconta Patricia Arquette in una giornata di sole italiano, lei che divenne famosa nel 1993 con Una vita al massimo di Tony Scott in cui vestiva i panni della prostituta Alabama. “Le cose non sono certo cambiate e adesso che c’è Trump al potere, continua ad essere molto pericoloso per i trans e tanti vengono uccisi. Quando guardo lo show di RuPaul, mi torna la speranza, ma c’è ancora troppo da fare”.

Patricia Arquette è tra gli ospiti di punta della seconda edizione del Filming Italy Sardegna Festival ed è qui, in un resort immerso nel verde a pochi chilometri da Cagliari, che la incontriamo. Sandali con tacchi altissimi, un lungo abito fresco e giallo con fiori di paillettes, l’immancabile capello biondo, fissa nel vuoto prima di risponderci. Si versa una non meglio identificata bevanda calda alle erbe dal suo thermos che porta sempre con sé, un po’ come la Regina Elisabetta con la sua borsa, per poi aprirsi completamente. “L’ aria italiana – ci dice - che ci sia pioggia o il sole, fa bene in ogni caso”.

La ricorderete sicuramente quando, quattro anni fa, vinse il Premio Oscar come Migliore Attrice Non Protagonista per Boyhood, accompagnato da un discorso entrato nella storia dell’Academy e da una dedica (letta inforcando gli occhiali)

“a tutte le donne che hanno partorito, a tutte le cittadine di questa nazione”.

I suoi Stati Uniti, appunto. Abbiamo combattuto per i diritti di tutti gli altri, è ora di ottenere la parità di retribuzione una volta per tutte, e la parità di diritti per tutte le donne”, dichiarò tra gli applausi delle colleghe in sala, in particolar modo di Meryl Streep e Jennifer Lopez che si alzarono dalle poltrone. “È incredibile, ma adesso è il nostro tempo. È l'ora delle donne”, aggiunse. “Uguali significa essere uguali, ma la verità è che più le donne invecchiano, meno soldi guadagnano”.

Cosa è cambiato da quella sera e da quel discorso? “Quando l’ho fatto – precisa – non mi riferivo solo all’ambiente dello showbusiness, ma a tutti gli ambienti in cui possono lavorare e lavorano le donne, perché in tutte le professioni, non c’è parità nel salario”. “L’ America, aggiunge, è la Nazione più ricca al mondo, ma è anche quella in cui un bambino su cinque muore di fame. Metà della fame infantile sarebbe eliminata se noi donne fossimo trattate come gli uomini. Con l’amministrazione che abbiamo, poi, le cose sono solo peggiorate”. Da quando ha compiuto cinquant’anni, le sono stati offerti alcuni tra i ruoli più interessanti. “La cosa mi fa piacere, ma sono molto sorpresa di questo”. Dopo averla vista nella mini serie tv Escape at Dannemora - in un ruolo tratto da una storia vera (era il 2015 e due galeotti scapparono da un carcere di massima sicurezza situato in un paesino con meno di mille abitanti, aiutati da una signora che lavorava nel carcere) che solo una come lei poteva interpretare così bene (vinse anche il Golden Globe) - l’abbiamo vista in ruoli da cattiva, come la madre terribile nella prima stagione della serie The Act, anche questa basata su eventi realmente accaduti. Protagonista della storia è Gypsy Blanchard, una ragazza che cerca di sfuggire al rapporto con una madre iperprotettiva, Dee Dee Blanchard (Arquette), affetta da Sindrome di Münchhausen che fa credere alla figlia, o meglio le impone, di vivere su una sedia a rotelle finché lei non si ribella arrivando all’immancabile tragedia finale. “Conoscevo questa sindrome, ma non questa particolare storia - dice la Arquette – ma quando ne ho parlato coi miei figli, mi hanno subito detto di non farla”. “Per prepararmi – spiega - ho trovato una lunga intervista di una donna che aveva questa sindrome che entrava e usciva da questa condizione mentale. È come se questa donna sentisse, per avere una sua identità, il bisogno di aiutare e anche un’ansia di separazione, una co-dipendenza unita alla paura di essere lasciata sola”.

La famiglia – e la sua è davvero molto numerosa e allargata come ricordavamo – “continua a essere un punto di riferimento importante anche se ci vediamo poco, perché tutti molto occupati”. Ricorda quando andò a vivere da sola a Los Angeles grazie all’aiuto di sua sorella Rosanna. “Mi costrinse a vedere tanti film, perché sosteneva che il cinema, prima di farlo, andasse studiato. Oggi più che mai non posso dirle che aveva pienamente ragione”. Il regista a cui è più legata? “Sicuramente David Lynch”, risponde stavolta senza pensarci più di tanto, il regista per cui recitò in Strade Perdute (Lost Highway, 1997). “Tutto ciò che lo riguarda è fuori dal comune, ti dice di prenderti il tempo necessario prima di iniziare a girare una scena, è un uomo come nessun altro”. A teatro – fatevene una ragione – non la vedremo mai, ma continuerà a frequentarlo da spettatrice, mentre nelle librerie di tutto il mondo arriverà presto la sua storia che ha già iniziato a scrivere. La sua più grande paura? “La situazione sempre più pericolosa che si è creata in America dove se non si darà voce al dissenso politico non ci sarà mai un vero cambiamento”, ribadisce più volte. “Il fascismo - conclude prima di salutarci - è nato proprio dal silenzio”.