Ad annunciarne la morte è stato il figlio, Anderson Cooper, popolare mezzobusto della CNN, che le ha dedicato un servizio di 7 minuti, e un addio sentito, ma composto. Lui che solo tre anni prima aveva raccontato sua madre in modo cristallino nel documentario di HBO Nothing left unsaid. E, forse, l'addio non sarebbe piaciuto se non con quei 7 minuti alla stessa Gloria Laura Vanderbilt morta per un cancro allo stomaco all'alba di 95 primavere portate, come tutta la sua vita, sotto gli occhi del mondo, e di conseguenza, con raffinata discrezione. Non amava i campionati annuali di circoli e i pranzi e gran balli ai quali tutto il resto dei wasp che contano, a New York, si costringevano senza fare in realtà molta fatica, ma preferiva dedicarsi alle sue passioni, la moda prima, e la pittura dopo. Il tutto registrando successi e plausi che poco avevano a che fare con il suo cognome, risalente al leggendario Commodoro Cornelius Vanderbilt, affarista nato povero e divenuto con i trasporti marittimi e commerciali il decimo uomo più ricco di sempre (la sua fortuna, al momento della divisione dell'eredità, era stimata a 100 milioni di dollari, l'equivalente odierno di 144 miliardi). Nel 1968 la rivista Life aveva infatti definito Gloria Vanderbilt “perfetto contraltare femminile dell'uomo rinascimentale”.

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Suo padre è Reginald Vanderbilt, signore delle Ferrovie omonime, che muore quando lei ha solo 15 mesi, non prima di aver esclamato, guardandola nascere « Meraviglioso quanto sia una Vanderbilt: non vedete gli occhi allungati?» E in effetti, quello sguardo affusolato, unito alle labbra piene e a una criniera acconciata alla maniera di Veronica Lake, la renderanno più avanti preda ambitissima di uomini e giornali di moda. Sua madre, Gloria Morgan, sposatasi giovanissima, non sembra affliggersi troppo per la morte del marito. La bambina cresce in Francia, con una tata amatissima, Emma Sullivan Kieslich, da lei chiamata Dodo, mentre Gloria, lei sì, a differenza della figlia, si infila in un tourbillon di pranzi e ricevimenti e feste in giro per l'Europa, mentre sua sorella gemella Thelma si imbarca in una storia tumultuosa con il principe del Galles Edoardo VIII, santo laico protettore dello stile maschile, sul quale si sono sprecati vocabolari modaioli e agiografie profane. Ma Gloria di tutto questo non sa ancora nulla: la realtà fa i conti con lei comunque precocemente. Ha solo 10 anni quando entra per la prima volta nell'inquadratura delle telecamere, che la seguono morbosamente mentre entra ed esce, con il suo caschetto nero, di fretta e impaurita, dal tribunale, dove sua zia paterna, Gertrude Vanderbilt Whitney, ha condotto sua madre Laura, richiedendo l'affidamento della bambina in un processo passato alla storia come Trial of the Century. The “poor little rich girl” come la definirà sua zia, è infatti unica erede delle fortune del padre, ma fino ai 21 anni i fondi sono gestiti dalla Morgan, le cui abitudini dispendiose portano Gertrude a chiederne l'allontanamento. Costretta a sedersi al banco dei testimoni a 10 anni, e interrogata in merito ai comportamenti della madre, i giudici le fanno il favore di svuotare la sala, di modo che nessuno possa influenzarne parole o pensieri. Da fuori, la sentono singhiozzare. Scandaloso all'epoca, impensabile oggi.

Va a vivere nella lussuosa casa della zia a Long Island, circondata da cugini della sua età ma privata di Dodo. Quando entrerà in possesso delle sue fortune, taglierà ogni rapporto con la madre, che comunque sosterrà economicamente fino alla morte di lei, nel 1965. La sua infanzia procede senza smottamenti fino ai 17 anni: frequenta la Wheeler School di Providence – e poi l'Art Students League di New York, dove svilupperà la passione per la pittura – ma la conoscenza dell'attore Errol Flynn, che incontrerà e frequenterà durante una vacanza in California, le fa puntare lo sguardo su una carriera da modella, che poi intratterrà per tutta la vita, non solo per via della figura elegante e dell'ovale perfetto, ma per quella sua capacità di fare della sua vita un esempio, un ruolo scritto benissimo e recitato con incantevole naturalezza. Nessuno ha mai usato, per lei, un aggettivo diverso da “deliziosa”: non i suoi figli Anderson e Carter, non Horst.P. Horst, Richard Avedon e Francesco Scavullo – che l'hanno immortalata per Harper's Bazaar, Vogue e Town & Country, Vanity Fair, Life, non l'amica Diane Von Furstenberg, non le persone con le quali ha lavorato quando lanciò la sua linea omonima di denim, sul finire degli anni 70.

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Di molto precedente, però è il matrimonio con Pat Dicicco, agente di Hollywood sul quale gravano pesanti le ombre di un collegamento con la mafia. E in effetti la sua moglie precedente, l'attrice Thelma Todd, muore poco prima in circostanze passate alla storia come misteriose. Interrogata in merito dal figlio Anderson, autore di un documentario summa prodotto dalla HBO nel 2016, Nothing left unsaid, la risposta alla domanda «Non ti mise in allarme il fatto che si raccontasse fosse stato lui a ordinarne l'omicidio?» è un'ingenua ed elegantissima «Sweetheart, avevo solo 17 anni». Si lasciano comunque pochi anni dopo, e a pochi mesi di distanza, arriva il secondo matrimonio, con il direttore d'orchestra Leopold Stokowski: un profilo di certo più adatto al suo ceto, ma con 43 anni in più. Dall'incontrarlo al percorrere la navata passano all'incirca 4 settimane. «Nessuno dei tuoi amici lo trovò strano?” chiede sempre Anderson. “Non me lo ricordo. E in fondo, non mi interessava», la risposta. Con lui resterà 10 anni e avrà due figli, Leopold Stanislaus e Christopher. Si lasciano, e quella composizione nella quale sta velocemente trasformando la sua vita, si puntella di note casuali, Marlon Brando, Frank Sinatra e l'aviatore Howard Hughes, per poi tornare nel registro di Sidney Lumet, regista che firma il film del 1957 La parola ai giurati, ricoperto di Nastri d'argento e Orsi d'oro, ma a cui sfugge l'Oscar in favore de Il Ponte sul Fiume Kwai. Rimangono insieme per 8 anni, poi nello stesso anno del divorzio, incontra il suo ultimo e amatissimo marito, l'autore Wyatt Emory Cooper, con il quale avrà due figli, Anderson e Carter.

Al centro dell'attenzione anche quando rifugge le telecamere, e i party, a cui non parteciperà se non raramente con Wyatt, il suo sorriso è contagioso, persistente, aperto. Una caratteristica che la rende diversa dalle pur raffinatissime altre rappresentanti della nobiltà wasp, da Jackie Kennedy a Lee Radziwill. Anderson la registrerà con grande commozione, nelle sue ultime settimane di vita, intubata in camera d'ospedale eppure ancora capace di scoppiare in una risata a sussulti, discreta eppure sincera, per via di una battuta che lei stessa aveva fatto. Sarà in quel momento che il figlio scoprirà, mentre le loro risate cariche di affettuosa e dolente umanità si sovrappongono, che ridono alla stessa identica maniera. Dotata anche nella scrittura, a farle da mentore è Truman Capote, che ne nota il talento leggendo la sceneggiatura Cinamee. A fare la differenza, oltre all'innata capacità a far tutto, e farlo bene, è la rigorosa disciplina nella quale Gloria mantiene corpo e spirito. Un equilibrio totalmente antitetico rispetto alla umorale Holly Golightly di Una colazione da Tiffany, eppure qualcuno sussurra che quel personaggio uscito dalla penna proprio di Capote, sia ispirato a lei. Un equilibrio che non è esente dai vezzi che, per genetica, poteva concedersi: nel 1967 organizzerà nel suo appartamento dell'Upper East Side una cena per 50 invitati, per festeggiare la lettura al Consiglio Comunale di New York, tenutasi poco prima, di A sangue freddo, romanzo di Capote uscito un anno prima. Nel menù, solo Champagne Krüg e aragoste Newburg.

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Sul finire degli Anni 70 arriverà per lei l'immenso successo commerciale della linea di jeans Gloria Vanderbilt, insieme al Murjhani Group. La sua prima sfilata, nel 1976, si tiene in un luogo simbolo del sacro e del profano di New York, lo Studio 54. I jeans hanno il logo ispirato al suo ruolo nel film The Swan. Mentre le strade sono invase dai volumi hippy dei jeans a zampa, lei pensa a modelli dalle linee affilate, che calzano con eleganza, senza ingombrare, e facendosi notare. Si racconta che fermasse per la strada la gente a cui li vedeva indosso, chiedendo se erano di loro gusto. Calvin Klein, interrogato nel 2003, ammetterà di non sentirsi responsabile del successo dei jeans, passati da workwear a raffinata espressione di personalità, ma di aver preso la torcia proprio da Gloria, che appariva nelle réclame pubblicitarie vestendo con entusiasmo le modelle/clienti.

Dalla frontwoman del punk, Debbie Harry, a Iman, i jeans di Gloria Vanderbilt si vendono assai: nel primo anno raggiunge i 70 milioni di vendite, nel 1978 i profumi che portano il suo nome sono un successo commerciale senza pari, i ricavi si avvicinano al miliardo. Nello stesso anno, però, deve affrontare la morte di Wyatt, che non supera un intervento per un bypass cardiaco. Si rifugia allora in quella casa molto fotografata, tra arazzi e cuscini damascati, piastrelle patchwork e quadri antichi, qualche anno dopo vende i diritti per l'utilizzo del nome al gruppo Gitano, e si immerge nella pittura. Già qualche anno prima WWD ne aveva tessuto le lodi, raccontando che “il suo occhio è perfettamente vittoriano: preciso e composto; la chiarezza dei suoi colori e la solidità della sua espressione riportano alla mente Matisse e Mirò”. Gloria trova la pace tra i muri di una casa indipendente, nella quale non c'è nessun portinaio in livrea a infastidirti, come lei stessa racconterà più tardi, e dove le pareti sono permeate dall'odore di pittura e trementina.

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Dieci anni dopo la morte del marito, a mancare è il figlio Carter, che si suicida lanciandosi dal 14esimo piano della loro casa newyorchese. Un buco nero il cui dolore infinito affronta proprio con la pittura. Così come sua madre si era dedicata a party e celebrazioni, lei si immerge solo dentro se stessa, scrivendo libri, disegnando e curando mostre, lasciando temporaneamente, ma con gentilezza, il mondo fuori dalla porta. Chi ha poi acquisito i diritti sull'utilizzo del suo nome, Jack Gross, le ha chiesto più volte negli anni se voleva tornare a gestire quel marchio di successo, che lei aveva lanciato. L'ultima volta è stata tre anni fa, quando Jack ha chiesto (ancora) ad Anderson, che gli ha risposto, con quell'ironia sottile e mai cattiva, tipica dei Vanderbilt di nuovo stampo – di quelli prima no, non se ne parla troppo bene – «Mia madre ha 92 anni, Jack, non è alla ricerca di un lavoro». E forse proprio Anderson, nel suo servizio a lei dedicato, ne ha dato la definizione migliore. «Gloria Vanderbilt, mia madre, mi è sempre sembrata come una viaggiatrice arrivata qui da una galassia distante su di una stella esplosa molto tempo prima. La sua figura privata era infinitamente più affascinante di quella pubblica, pur così celebrata, e sin da bambino ho sempre pensato che il mio compito fosse quello di proteggerla».