Quando arriva lui al Lido di Venezia e tutto si blocca o si fa ancora più frenetico: fan in delirio sin dalle sette del mattino sotto il sole, numero di bodyguard e uomini della sicurezza triplicati, transenne ovunque, un’isteria collettiva per il divo per eccellenza, il più atteso in questa 76esima Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica. Brad Pitt da vicino è ancora più “naturalmente” bello, non c’è che dire, e i suoi 55 anni sono tali solo sulla carta. Collanina al collo, cappello basco, t-shirt con muscoli in evidenza dello stesso colore, quando ti parla, ti fissa con i suoi occhi azzurri capaci di ipnotizzare chiunque, donne o uomini poco importa - e gesticola, facendo muovere i numerosi braccialetti che ha al polso destro con i tatuaggi cambogiani (quel che resta, assieme ai figli ovviamente, del matrimonio con Angelina Jolie?). Al Lido arriva per Ad Astra, il film di James Gray (uscirà il 26 settembre per Fox) di cui è anche produttore e protagonista e in cui indossa i panni di un astronauta che va ai confini del sistema solare per ritrovare suo padre - disperso sedici anni prima su una navicella - oltre che per sventare una minaccia letale per l'umanità. Con Il regista si conoscono da tempo, sin da quando Pitt decise di produrre, tre anni fa, il suo film Civiltà perduta. “Quando James mi ha mandato la sceneggiatura, ci spiega, ho fatto un salto sulla sedia. Il materiale era così avvincente che ho deciso di realizzarlo. Era una sfida che non potevo lasciarmi sfuggire”. I motivi per cui l’ex ragazzotto di Thelma & Louise ha deciso di accettare questa parte, non sono perché è un film di fantascienza che racconta - suo modo - che oltre a noi nell’universo ci sono anche altri esseri viventi (terribili scimmie assassine che non hanno nulla a che vedere con quelle di Kubrick) o perché lui ama questo genere, ma perché - come tiene a precisarci - “il film ribalta un luogo comune della nostra cultura”.

“C’è sempre quel l’idea della mascolinità intesa come ostentazione di forza, di sicurezza e abilità in ogni situazione”. “Il cinema - aggiunge - a partire dal dopoguerra, si è costruito sul mito del Marlboro Man che deve vincere sempre. Sono nato in un piccolo paese di Shawnee, in Oklahoma, e anche io sono cresciuto con questo ideale di virilità, incarnato da star come Clint Eastwood. Invece il mio astronauta, - sicuramente il ruolo più difficile della mia carriera - mostra debolezze, fragilità, paure, un lato femminile e maschile insieme che sono poi lo specchio dei tempi”. Abbracciamo spesso noi stessi negando il dolore e la vergogna” continua il sex symbol, ma guai a definirlo così che (incredibile) si fa rosso paonazzo. “Siamo stati svezzati con film degli anni ‘70, personaggi né buoni né cattivi, ma umani. Sono queste le storie che mi appassionano. Nel mondo non c’è solo il bianco o il nero, ma anche il grigio. Questo è quello che mi guida”.

Una fluidità, insomma, da più punti di vista, che confermata da lui fa ancora più effetto. Il film, precisa, è un'investigazione su cosa voglia dire essere uomo e io, nel mio piccolo, penso di averlo capito: significa essere aperti, sempre connessi con gli altri”. Tutti noi ci portiamo dietro dei dolori e delle ferite della nostra infanzia, ma l’attore - come ci conferma - usa quel dolore e quei sentimenti in ciò che fa, cercando di dare il suo meglio”. Il difetto più grande dei suoi colleghi? “Oltre all’ego smisurato? Pensare ai premi, all’ossessione dell’Oscar. Io mi preoccupo di come il film verrà accolto. Se ti fissi sui premi sei fottuto. Gli Oscar fanno piacere, per carità, ma se li vincono gli amici sono contento”. Un Pitt, dunque, più saggio e più umano, “più umile”, fa lui. “Da giovane sbarcai a Los Angeles e New York cercando di sfondare nel cinema, ero uno sconosciuto che aveva preso il primo aereo a 23 anni. Le cose sono cambiate, ne sono consapevole, ho avuto il successo e leggo testi di filosofia, dentro di me sono rimasto il ragazzo di provincia di un tempo ed é bellissimo”.