Sono passati poco più di 100 anni da quando Hollywood è entrata a far parte integrante di Los Angeles, pochissimi per la storia di una città, soprattutto dalla prospettiva di noi europei. Eppure sono già abbastanza perché la città possieda un proprio carattere unico e un universo di folclore condiviso, che ovviamente gira intorno al cinema: le storie dei divi e delle dive dei decenni più gloriosi degli Studios compongono un universo che ha assunto in pochissimo tempo un carattere mitologico, favolistico, anche grazie a libri come Hollywood Babilonia di Kenneth Anger (per quanto lacunoso e spesso pieno di errori), all’aura divina che circonda le celebrità (specialmente quelle morte giovani come Marilyn Monroe o James Dean) e a tutte le storie che hanno costruito i miti fondativi di un universo mitologico affascinante e complesso.

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Quentin Tarantino, Leonardo DiCaprio e Brad Pitt, protagonisti di Once upon a time in Hollywood

Se le storie di Hollywood Babilonia sono quelle che la nonna di Kenneth Anger gli raccontava come favole morali, C’era una Volta a Hollywood ha il titolo di una favola ed è una storia della buonanotte alla maniera di Quentin Tarantino, scritta e realizzata per quelli come lui cresciuti nel mito di un cinema che non esiste più e forse non è mai esistito, ma non smette di affascinare specialmente quando si intreccia - come nel caso degli omicidi di Cielo Drive - con eventi che hanno segnato un cambiamento radicale nella società. Non è semplice decifrare la realtà al di sotto del racconto nel nono - e se mantiene la promessa, penultimo - film di Tarantino se non si è davvero ferrati sulle complesse vicende della Manson Family e di come sia riuscita, nell’arco di due anni, a insediarsi stabilmente nel sottobosco creativo di Hollywood e tessere relazioni con personaggi che vanno dal batterista dei Beach Boys Dennis Wilson a Terry Melcher, produttore dei Birds, figlio di Doris Day e compagno di Candice Bergen. È proprio cercando Terry che Charles Manson incontra per la prima volta le sue più celebri future vittime: Sharon Tate e l’ex fidanzato Jay Sebring, parrucchiere dei divi nonché ispirazione per il protagonista di Shampoo, la commedia satirica scritta e interpretata da Warren Beatty. Ed è proprio con la morte di Tate e Sebring - insieme all’amico di Roman Polanski, Wojciech Frykowski e all’ereditiera del caffè Abigail Folge - che si segna uno spartiacque tra l’era dell’acquario e la cupezza degli anni Settanta, come anche il film di Beatty racconta, sei anni dopo, legandola a doppio filo con l’elezione di Nixon. Mentre i giovani ricchi e liberal di Hollywood erano impegnati con l’amore libero, gente come Manson si infiltrava trasformandolo in merce di scambio e i conservatori preparavano il loro ritorno in grande stile.

Alle prese con la vicenda che segnò la fine del sogno hippy costringendo i giovani hollywoodiani ribelli a confrontarsi col fatto che per fidarsi delle persone non era più abbastanza sapere che si vestivano e si pettinavano come te e credevano nel free love, Tarantino decide infatti di andare fino in fondo nel mischiare realtà e finzione raccontando la SUA versione, come aveva fatto già in Django e in Inglorious Bastards. Vuol dire, in pratica, mettere la morte degli anni Sessanta (e con essi del cinema classico, degli Studios, di quell’America dall’innocenza percepita così potente per l’immaginario del regista) sullo stesso piano della schiavitù e dell’Olocausto come tragedia a cui dare un senso nuovo lavorando sul what if, inventando personaggi che incarnino l’epoca d’oro come Rick Dalton e Cliff Booth: il primo è una star in declino dei western che si giravano proprio in posti come Spahn Ranch, la casa della Manson Family - e quando nel film le ragazze a piedi scalzi escono dalle facciate dei saloon, è il certificato di morte di un certo modo di far cinema che non tornerà -, il secondo uno stuntman ispirato a Shorty Shea, il cui corpo è stato ritrovato nel 1977 ed è stato identificato come una delle prime vittime di Manson, uno dei pochi ucciso da lui in persona. Rick e Cliff sono uomini di una generazione sorpassata, residui di un mondo che sta scomparendo, scalzato dai Polanski e dai Dennis Hopper (che peraltro conosceva Manson e lo andò a trovare in prigione), hippies di cui diffidano o dai quali non vengono considerati. Rick si ritrova Polanski e Tate come vicini di casa, ma i loro mondi non si toccano, così come la vecchia e la nuova Hollywood competono costantemente, in un mondo in cui perfino i child actor seguono il Metodo e guardano i vecchi attori dall’alto in basso; Cliff si fa licenziare per aver picchiato un altro simbolo della new wave cinematografica, Bruce Lee. A Tarantino piace invece l’idea di riconciliare questi mondi, di immaginare una versione alternativa della Storia in cui le storie si intrecciano e si può stare dalla parte giusta del mondo anche quando ci si veste in modo diverso ma senza intenti regressisti: è l’amore per il cinema che unisce e sancisce la comune appartenenza alla “parte giusta” della storia, permettendo di immaginare una versione edulcorata della realtà in cui la grande frattura non avviene e gli anni Sessanta non finiscono mai.

Joan Didion nel suo essay del 1979 The White Album dice che dopo la morte di Tate "No one was surprised" ma comunque la strage di Cielo Drive risuonò casa per casa tra le colline e nessuno si sentì più al sicuro, anche se tutti volevano far parte della leggenda e raccontavano di aver cenato o di essere stati a tanto così dal cenare con Tate a El Coyote prima della morte e il leitmotiv tra l’élite del cinema era “it could be me”. Quentin Tarantino, quarant’anni dopo Didion e cinquant’anni dopo la strage, si immagina lì (peraltro, El Coyote è a due passi dal New Beverly, il cinema losangelino di sua proprietà in cui C’era una Volta a Hollywood si proietta ogni sera da più di due mesi, sempre col tutto esaurito) non soltanto per sentirsi parte della mitologia ma per cambiarla, esercitando il vero grande potere del cinema: quello di portare sullo schermo i sogni, in questo caso quelli di un ragazzino cresciuto ai piedi dell’Olimpo dei divi nutrendosi delle loro leggende.