Giacca di pelle nera come i pantaloni e la t-shirt pronta a nascondere i chili in più, scarpe comode e una rasatura totale volta, invece, a risaltare gli occhi celesti. Quando John Travolta si presenta al nostro incontro, è come se fosse un mix di Danny Zuko, Tony Manero e Vincent Vega, rispettivamente i personaggi da lui interpretati in quelli che sono, come ci dice, i suoi “tre film memorabili”: Grease, La febbre del sabato sera e Pulp Fiction. Film cult, non c’è che dire, che John Travolta oggi, a 65 anni, ha alternato ad altri meno fortunati, “ma fa parte del gioco”.

“La capacità di creare, precisa, è sempre dentro di noi. Se c’è qualcosa di basso che arriva nella vita, bisogna solo pensare a far venir fuori quella forza mentale prima che fisica che si ha dentro e che ci spinge ad andare avanti nonostante tutto”. Parla con un tono di voce basso, precede sempre le sue risposte alle domande con un “ok” - come a dire, ci ragiono un nanosecondo in più per dare il mio meglio – e risponde a tutto, tranne alla domanda su Scientology, la setta da lui abbandonata qualche anno fa dopo la morte improvvisa del figlio adolescente. Oggi, però, è sorridente, ha trovato quella forza di cui aveva bisogno “per continuare a vivere”, e per lui vivere è anche fare film. Qui, alla Festa del Cinema di Roma, dove ha partecipato a un Incontro Ravvicinato con il pubblico e ricevuto un premio speciale, ha anche parlato del suo ultimo film, The Fanatic, in cui interpreta un fan sfegatato di un attore di film d’azione, un film girato in soli venti giorni, nato grazie alla volontà e alla passione di Travolta per il progetto, diretto da Fred Durts, frontman dei Limp Bizkit. “È un ruolo diverso che riflette alcune mie passioni poco conosciute e che custodisco gelosamente”, ci dice. “Sono un fan appassionato e quindi capisco bene cosa voglia dire essere un fanatico, non ho paura di essere perseguitato, non ho mai avuto problemi di questo tipo”. Il film The Fanatic è l'ultimo tassello di una carriera lunga e piena di successi. “Sono orgoglioso di aver partecipato a film che hanno lasciato il segno e che, a distanza di decenni, rimangono ancora fra i preferiti di tante persone. Come attore sogno di fare film che il pubblico possa amare, a prescindere da quando li guarda”. La verità - aggiunge - è che la vita di una persona è un mosaico di arte e di esperienze, ma sono i pezzi che preferisci che ti permettono di essere senza tempo, proprio come lo sono quei miei tre film che adoro. Grease, La febbre del sabato sera e Pulp Fiction – ribadisce – “sono dei film senza tempo ed è anche per questo che piacciono ancora a generazioni completamente differenti”. All’epoca, gestire il successo “non è stato difficile”. “La mia famiglia veniva dal teatro e dall’arte, penso che le persone nascano con i geni adatti a certe cose. Io ho abbracciato tutto quello che è accaduto, ho dovuto accogliere il mondo, facendolo entrare nella mia vita come una persona cara, domandandomi invece cosa sarebbe successo dopo. Ho cercato di spingermi oltre, di fare cose diverse grazie al successo di quei film. Le mie origini rimandano al sud Italia: mia nonna veniva da Napoli, mio nonno dalla Sicilia. Sono arrivati in America fra il 1902 e il 1906, sono stato da quelle parti ma non ho trovato le origini dei Travolta, mi sento unico con questo cognome”.

Nel frattempo, fan di ogni tipo lo riconoscono, lo salutano e aspettano che noi finiamo per potergli chiedere una foto, un autografo o stringergli la mano. E a proposito di fan, ci confida di esserlo stato di Sophia Loren (“chi non la ama?”), di Fellini (“La strada mi ha cambiato la vita”), dei Beatles, di Marlon Brando (“era un amico, lo adoravo”), così come Liz Taylor e Bernardo Bertolucci. “L’importante è vivere oggi costruendo il domani, non mi dispiaccio mai per il passato. Ho detto no ad American Gigolò, Splash, Il miglio verde, Ufficiale e gentiluomo; non li ho accettati per una ragione o per l’altra, ma di ruoli e film ne ho fatti tanti altri, non ho rimpianti”. Il viaggio più interessante resta comunque Pulp Fiction. “Quentin (Tarantino, ndr) rappresentava una novità, aveva una sua visione che è stata davvero interessante osservare come attore. I suoi consigli erano corretti, sofisticati, mi ha consentito molta libertà e dato fiducia. Suggerimenti efficaci e potenti, ma semplici, impossibili da dimenticare”. Un rapporto, quello con i registi che lo hanno diretto, che rivendica come cruciale. “Noi attori abbiamo un compito diverso. Il pubblico mi ha permesso di essere diverso in ogni ruolo, la libertà più grande che possa esistere per un attore, ma gran parte della mia carriera si è basata sul fatto di aver ispirato, come musa, l’immaginazione di sceneggiatori e autori. Ho deciso di essere interprete più che creatore. Mi sento fortunato per questa libertà”. Una di queste, è di non fare un film Marvel. “Non critico quei film, né chi li fa, ma io da piccolo avevo come mito Bergman e Fellini, non i supereroi. Quella mia propensione mi ha portato ad essere quello che sono oggi e a fare delle scelte invece che altre”. Prima di andare via, gli chiediamo se lui, grazie a Tony Manero, oggi balla ancora. Ci pensa un po’, dice il suo solito “ok”, ci pensa ancora e poi racconta. “Di recente ho fatto un video per Armando Christian Pérez, un rapper americano meglio noto come Pitbull, ho ballato un tango per lui che si chiama ‘3 to Tango’. Penso che se Tony Manero ballasse ancora oggi, farebbe sicuramente un tango”. Poi ci guarda fisso negli occhi e ci dice la frase che stavamo aspettando: “Io, comunque, ballo ancora”.