“Mi vergogno tantissimo a inventare le cose”. Annus domini 2019, Irene Ferri, femmina di quelle che non se ne fanno più, forse, classe 1972. “Rettifico, ho la licenza di mentire solo dentro il set. Ma scade quando chiudo la porta di casa dietro le mie spalle”. Irene Ferri, protagonista del cinema italiano dalla fine dei Novanta, di quello che su grandi e piccoli schermi è scritto sui manuali della popculture tricolore. Musa dei Vanzina in Vacanze di Natale e Quello che le ragazze non dicono, icona di una generazione da Solletico a Tutti pazzi per amore, quest'anno in teatro con la pièce La Camera Azzurra e ogni domenica su Rai1 con la serie tv Pezzi Unici, la carriera di Irene non conosce la parola stand-by in nome di quel "brivido blu" che solo il REC della cinepresa o il brusio di una platea sa regalarle.

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Courtesy Photo / Dirk Vogel

Qual è l’unicità del cinema italiano e cosa invece siamo costretti a invidiare ancora o per sempre all’America?

Sfido qualunque attore o regista straniero a venire a lavorare qui con i mezzi che abbiamo a disposizione. Saranno pure piccoli ma capaci di realizzare capolavori, spesso e volentieri. Siamo innamorati e appassionati del nostro lavoro, abbiamo spirito di adattamento, mentre i colleghi americani se non hanno il camper lungo 10 chilometri non si svegliano al mattino.

Ho letto, a proposito, che vorresti fare un action movie…

Porca miseria, sì! Ma lo so, ho proprio sbagliato paese di nascita.

Al Festival di Venezia 2019 si è sollevato un movimento contro il Leone d’Oro a The Joker, “troppo blockbuster, troppo poco d’autore” per una manifestazione storica come la nostra. Cosa ne pensi?

Penso che, tanto a Venezia quanto da qualsiasi altra parte, ogni scelta viene sempre criticata. Se vince il cinema d’autore non va bene, se vince una produzione più pop nemmeno. Io credo che The Joker non sia nato come blockbuster, anche se il suo destino è inevitabilmente quello. Le critiche, soprattutto nel nostro Paese, non sono mai scevre da amicizie, simpatie, conoscenze… L’importante è che alla fine l’ultima parola spetti al botteghino.

Credi nel ruolo di artista engagé?

Prima di essere attori siamo persone che votano e pagano le tasse, per questo abbiamo il diritto di esprimerci come ogni altro cittadino su ogni argomento.

E quindi come stai vivendo da persona e da attrice l’era del #metoo?

Per una realtà che spero abbia effetti positivi sulle nuove generazioni. Poi, per carità, il mondo gira da sempre così, solo che se certe vicende accadono alle celebrità hanno più eco, anzi provocano quasi un piacere voyeuristico nascosto. Dobbiamo stare solo attenti a non fare la fine degli americani, cioè di quelli che si sono trasformati tutto ad un tratto in bigotti, puritani e ipocriti. Ormai ti chiedono scusa pure se ti fanno i complimenti!

A te è mai successo?

Diciamo che so riconoscere se la persona che ho davanti è un maiale o meno. In tal caso, saprò come rimetterlo a posto.

Conosci i set italiani da più di vent’anni. Critiche costruttive?

Manchiamo di universalità. Anche una micro storia deve avere un’epica per essere compresa da un mercato distante dalla nostra cultura. E che, spesso, nel cinema italiano non esiste.

Chi riesce a essere universale in Italia?

Matteo Garrone, Paolo Sorrentino, Emanuele Crialese e Daniele Luchetti.

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Courtesy Photo / Dirk Vogel

Cosa ti ha convinto a dire “sì lo voglio (fare)” a Cinzia TH Torrini, regista di Pezzi Unici?

In primis la sua forma, non si vedono tanti gialli in Italia. Poi la trama, colma di intrecci, suspense, dialoghi ben scritti, storie di scontri che diventano incontri… Io interpreto Anna, la responsabile di una casa famiglia che accoglie ragazzi dal passato difficile. Una donna che ha smesso di vivere e che ormai vive solo attraverso le vite degli altri, finché non conosce un insegnate di artigianato che le spiegherà come apprezzare, di nuovo, la leggerezza della vita.

Cosa succede in quell’intermezzo che sta fra la lettura del copione e il REC in camera?

Succedono miliardi di cose. Ultimamente, ad esempio, va di moda (ride) arrivare sul set e trovare a sorpresa un altro copione! Magari dopo che sei stata mesi a studiarne uno…

Perché?

Perché sta diventando tutto sempre più difficile, e la cinematografia italiana gioca al ribasso su molti settori. Poi, per fortuna, c’è sempre la passione incondizionata e l’amore per questo lavoro è talmente immenso che fa scordare tutto, come fosse una vocazione.

La tua a che età è arrivata?

Da bambina, su un palchetto di provincia. Il primo brivido blu ad avermi mai attraversato la schiena.

Blu sta a…?

Per me rappresenta la potenza. Il rosso, invece, tutte quelle emozioni che arrivano dalla pancia. È come un’onda che si avvicina a me e poi al pubblico, che dà a loro e poi anche a me, e continua continua continua, lo chiamo “orgasmo interpretativo”.

Cosa ti hanno lasciato tutte le donne che sei stata e le vite che hai vissuto sullo schermo?

Una piccola parte vive dentro di me. Il resto, l’ho lasciato andare. Bisogna fare così, sennò non torni più a casa.

In che senso?

Interpretare un ruolo è un’esperienza in cui è molto facile perdere di vista il proprio io, penso a casi limite come Philip Seymour Hoffman o Heath Ledger. Se vuoi essere un bravo attore devi lasciare i tuoi alter ego fuori dalla porta di casa, e io a un certo punto ho bisogno di tornare a casa.

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