Che fine ha fatto Duffy, la cantante gallese di Mercy, pezzo tormentone del 2008? Era bella, con la frangetta bionda e il broncio in stile Brigitte Bardot, una gran voce soul. A un certo punto però è scomparsa, come capita a molte e molti. La musica leggera è un tritatutto, oggi sei la nuova Aretha, la nuova Amy, la nuova qualunque cosa e poi l’album successivo non sfonda, la canzone giusta non arriva più, la gente si stufa, avanti un’altra combinazione di parole e note, avanti un altro video in heavy rotation e finita lì. Per Duffy, oggi 35enne il cui nome completo è Aimee Anne Duffy, l’album “no” è stato Endlessly, nel 2010. Poi più vista né sentita, senza che nessuno se ne accorgesse. Si sarà sposata e starà facendo la casalinga, avrà pensato qualcuno. Altri non hanno pensato nulla. Se ne sono dimenticati. Normale. Dimentichiamo in fretta quelli che smettono di avere successo. È una regola non scritta della celebrity culture.

Poi, circa un mese fa, una bomba: Duffy apre un profilo Instagram per dire che c’è ancora. E che gli ultimi dieci sono stati anni di solitudine e disperazione. Non si era ritirata per un qualche capriccio o per un senso di sconfitta. Era scomparsa dopo essere stata stuprata. Sul suo sito ha raccontato la vicenda nei dettagli, uno più spaventoso dell’altro: rapita il giorno del suo compleanno, drogata, portata all’estero in aereo, violentata più volte per giorni dallo stesso uomo che l’avrebbe poi riportata a casa per violentarla ancora e poi sparire. In seguito, Duffy entra in depressione, ne parla solo con la psicologa. Vorrebbe cambiare nome, sparire completamente, trovarsi un’altra identità come i testimoni sotto protezione dell’FBI nei film, si immagina fiorista in un luogo lontano dove nessuno la possa riconoscere. Si capisce dal suo racconto che qualcuno a un certo punto l’avrebbe ricattata, minacciandola di rivelare quello che era successo ma ciò che si capisce con maggior chiarezza è che lei non ha mai avuto il coraggio di raccontare questa storia. Più il tempo passava e peggio era. “Temevo quella domanda: perché sei sparita?”, scrive. La risposta, anche silente, a quella domanda avrebbe rimesso in moto nella sua testa quel film dell’orrore perché

“essere stuprata è come essere uccisa: sei viva ma morta”

Duffy scrive anche di aver deciso di rivelare la vicenda perché in questo momento di solitudine forzata per molti, ha sentito il bisogno di riconnettersi al mondo. E il mondo in quarantena, ma molto attivo sui social l’ha subito abbracciata, l’ha complimentata per il coraggio, ha solidarizzato con il suo dolore. Non tutti, però. C’è chi ha scritto che Duffy mente e ha fatto le pulci al suo lungo testo. E posto una sfilza di domande: perché non fare il nome dello stupratore? Era uno che conosceva? Era forse il suo fidanzato di allora, il rugbista Mark Philip? E poi perché nessun parente in questi anni le è stato accanto? E gli amici? Possibile che in dieci anni non abbia avuto amici accanto a sé? Le domande sono tutte legittime. Molto della ricostruzione di Duffy può sembrare confuso, tranne una cosa: questa ragazza ha bisogno di aiuto.

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