Ci sono i concerti belli, i concerti noiosi, i concerti “ma che ci sono venuto a fare” e i concerti “ha fatto la mia canzone preferita, ero qui sono per quella”. E poi, per me e altre 79.999 persone che erano a San Siro il 27 giugno 1980 c’è Bob Marley. Un caldo di pazzi, il biglietto a 4mila lire, un mucchio di gente arrivata da altre città che stava fuori con i sacchi a pelo dalla sera prima. Noi milanesi fortunelli, invece arrivammo nel primo pomeriggio, con le magliette fresche di bucato che poi si stropicciarono fino a notte fonda.

Marley, intanto, era sbarcato a Linate, aveva fatto una conferenza stampa fumando una canna davanti ai giornalisti, poi durante il sound check andava avanti e indietro sul retropalco pedalando su una specie di monociclo per scaricare la tensione. Nel camerino, si levava un’immensa nuvola di marijuana che sembrava la nebbia in Val Padana a novembre.

Lo stadio lo aveva voluto lui, era la conditio sine qua non imposta al promotore italiano, Franco Mamone, per fare anche in Italia una tappa del tour europeo. O un vero stadio o nisba. Mamone contattò il milanese Mario Giusti che, insieme ai ragazzi di una radio locale nascente, Radio Città, divennero gli organizzatori locali, anche grazie alla concessione di San Siro accordata dall’allora sindaco, Carlo Tognoli.

Il concerto di Bob Marley fu alfa e omega, fine e inizio di un mucchio di cose. Fine del decennio precedente, con uno strascico di peace, love e collane di perline ma anche inizio di quegli anni Ottanta che sembravano così lustri, vestiti per il successo. Soprattutto, quello di Marley, fu il primo concerto dopo un periodo di totale black out: i grandi nomi della musica in Italia non ci venivano più. Ne erano successe troppe. Gruppi di cani sciolti pseudo rivoluzionari che sfondavano i cancelli per entrare gratis. Scontri tra i vari gruppi, organizzatori e polizia. Ridicoli processi politici ai cantanti considerati servi del sistema. Indimenticabile l’immagine di uno spaventato Francesco De Gregori, al Palalido, nel 1976, che indietreggiava verso le quinte, rimpicciolendosi abbracciato alla chitarra, mentre gli autoriduttori urlavano tirando lattine come i Farisei scagliavano sassi contro l’adultera. L’apice di questo clima fu il concerto di Carlos Santana al Vigorelli, nel 1977, finito con una molotov lanciata sul palco.

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Così, Marley riporta la musica in Italia. E fa addirittura aprire alla musica lo stadio. Il rischio era enorme, a garantire la sicurezza il servizio d’ordine, gente che veniva dalle manifestazioni politiche e che ne aveva viste (e fatte) di cotte e di crude. Ma quella doveva essere una sera in cui il cielo aveva deciso di voler bene a tutti quelli che erano entrati a San Siro. Non ci furono tensioni, solo la musica. Come direbbe Elettra Lamborghini:

Marley, e il resto scompare.

Io, ancora studentessa, sono in tribuna stampa a destra del palco, compresa nel ruolo perché scriverò uno dei miei primi articoli per un giornale “vero”. Bob appare magrissimo, è già malato, infatti muore meno di un anno dopo. Ma la voce c’è. Gli straordinari capelli disegnano ghirigori nell’aria. Prima di lui, ci sono gli opening act o gruppi spalla come si diceva allora, inevitabili bersagli di fischi impazienti. Ricordo il bluesman Roberto Ciotti, seguito da un altro bluesman napoletano, un certo Pino Daniele, accompagnato da James Senese e Toni Esposito, infine un gruppo funky, gli Average White Band. Non se li fila nessuno, tutti aspettano Marley, il gran sacerdote del reggae, pronto a scatenare il grande sabba collettivo. Sudore, musica, erba (quella del prato e l’altra).

A San Siro, il terzo anello non c’era ancora. Guardando il secondo, a un certo punto lo vidi tremare, oscillava al suono di Jammin’ insieme a tutti noi.

Lo stadio era un’onda unica di gente che ballava. Che c’entrassimo noi milanesi, noi italiani, con la Giamaica, i rastafari, la speranza del ritorno in Africa dei neri giuro che non lo so. Non me lo sono mai chiesto.

Il reggae allora, grazie al carisma e alla bravura di Marley era, diremmo oggi, di tendenza. Aveva conquistato prima l’Inghilterra tanto che c’era un pizzico di sound reggae anche nella musica dei Clash e dei Police. Eppure ci sembrava nostro, nostro come l’Inter e il Milan (i padroni di San Siro sloggiati per una sera), profondamente nostro come tutte le cose quando diventano mainstream ma tu ancora non lo sai.

Chiunque, in quel periodo, era diventato all’istante un appassionato di reggae. Avevamo visto con entusiasmo il film The harder they come con Jimmy Cliff (non ricordo più nemmeno una scena) e comprato anche i dischi di Peter Tosh (non saprei dirvi il titolo di una canzone), oltre a quelli di Marley, ovviamente, che era l’indiscutibile divinità. Certe amiche si fecero le treccine rasta, io con i miei capelli liscissimi non ci ho mai nemmeno provato. Ma quanto mi sarebbe piaciuto averle, almeno per una sera. Quella sera, a San Siro.