Tilda Swinton è una scatola di sorprese. Per dire, sa cucinare l’haggis, il piatto nazionale scozzese: un budello ripieno di interiora e grano accompagnato da salsa al whisky. Detto così, pare barbaro ma è squisito, almeno così mi disse Luca Guadagnino, che l’ha assaggiato più volte, nel corso della sua lunga amicizia con Tilda. Tilda che, incinta di due gemelli, aprì la porta a questo italiano sconosciuto, lesse la sua sceneggiatura (The Protagonists, 1999) e gli disse: “Aspettami e farò il tuo film”.

Tilda Swinton sa anche cucire e rammendare, il che sorprende fino a un certo punto perché ha frequentato uno di quei severissimi, tradizionali collegi inglesi dove alle ragazze si insegna anche il punto croce. Tra le sue compagne di classe c’era Lady Diana che poi, poverina, sappiamo che fine ha fatto.

A Tilda, quel collegio pieno di regole rigidi unito all’ombra oppressiva dell’educazione del padre, un maggiore generale dell’esercito britannico, sono serviti ad affinare un incredibile istinto per la libertà che ha trasformato la signorina Katherine Matilda in Tilda e basta, artista, performer, attrice per registi d’avanguardia e per Hollywood, e soprattutto mai, mai, mai noiosa.

Il Leone alla carriera (che le verrà consegnato alla prossima Mostra del cinema di Venezia) dovrebbe avere questa motivazione: grazie Tilda per la bravura con cui cancelli la banalità dalle nostre vite. Quest’anno, poi, in cui tutto sembra surreale, giusto Tilda può convincerci che quello che stiamo vivendo sia vero e indicarci la via della consapevolezza.

Lo ha fatto tante volte, lavorando con Derek Jarman (per esempio, nello splendido Caravaggio) e con Sally Potter in un’irripetibile versione di Orlando di Virginia Woolf, era il 1992 e ancora di gender di qua e gender di là mica si parlava. Poi, tra lo stupore generale (e forse anche suo) è diventata un personaggio che i bambini riconoscevano per strada: aveva interpretato Jadis, la strega bianca delle Cronache di Narnia.

Tilda Swinton ha vinto un Oscar (per Michael Clayton, come non protagonista, nel 2008) meritatissimo: l’accento, la scena allo specchio, la camminata, l’invenzione del personaggio fanno di lei una professionista che maneggia i ferri del mestiere come pochi. Si diverte molto a trasformarsi, in alcuni film sfiora l’irriconoscibilità, al punto che Guadagnino ha usato queste sue capacità in Suspiria, nascondendola dentro i costumi di più personaggi.

Nel finto thriller dei fratelli Coen, Burn After Reading, interpretava una pediatra sadica che terrorizza i bambini, lei che è una mamma dolcissima dei suoi gemelli, Honor e Xavier, figli dell’ex marito John Byrne. Vive in un castello in Scozia, con loro e con il compagno Sandro Kopp, artista che la accompagna spesso anche sui tappeti rossi dove non somiglia mai a nessun’altra delle presenti: il suo stile, i suoi look sono unici. È generosa con i registi che stima: fu decisiva, per esempio, nel far chiudere, come si dice in gergo, il progetto di Okja, il film di Bong Joon- ho per Netflix. Ed è generosa anche con le giovani colleghe. Mi ha raccontato Dakota Johnson che, quando iniziarono a girare insieme A Bigger Splash di Guadagnino, fu Tilda a consigliarle di leggere i libri di Françoise Sagan per entrare meglio nel personaggio.

Compirà 60 anni a novembre e non si ferma, anzi. Appena i set sono stati riaperti, lei è arrivata: sta girando con Pedro Almodóvar un corto tratto dalla Voce Umana di Jean Cocteau, una vera pièce de résistance per grandi interpreti, che già fece Anna Magnani diretta da Roberto Rossellini nel 1948. Colta e cinéphile, due caratteristiche non sempre comuni nelle attrici, da piccola voleva diventare scrittrice. “Ma smisi di scrivere poco dopo arrivata all’università” mi ha raccontato una volta. “Ho fatto amicizia con gente che stava mettendo in scena degli spettacoli teatrali e ho cominciato a legarmi a loro. Diciamo che ho iniziato a recitare per stare in buona compagnia e quest’abitudine mi è rimasta per più di trent’anni”.

Anche noi, vogliamo stare in tua compagnia ancora a lungo, leonessa Tilda.