Emma Cline è una scrittrice di successo. Per il suo primo libro, Le ragazze, aveva ricevuto, a soli 26 anni, un anticipo di due milioni di dollari. I diritti del romanzo sono stati venduti prima ancora della pubblicazione e le recensioni sono state una pioggia di complimenti. Adesso è uscito il suo nuovo libro, Harvey (in Italia, sempre edito da Einaudi - Stile Libero) che non è un romanzo ma un lungo racconto che era stato pubblicato sulla rivista New Yorker nel giugno scorso. Il titolo originale è White Noise (Rumore bianco). L’editore italiano l’ha ribattezzato Harvey. Un po’ perché Rumore bianco è anche il titolo di un celebre libro di Don DeLillo e un po’ perché il racconto parla di Harvey Weinstein.

In un’operazione letteraria più interessante che affascinante, Emma Cline immagina lo stato d’animo del produttore, le sue paure e la sua rabbia, alla vigilia del processo contro di lui. L’attesa, nella realtà, è già finita, come si sa, con un verdetto sfavorevole ad Harvey Weinstein: il 24 febbraio scorso è stato riconosciuto colpevole di violenza sessuale e stupro e condannato l'11 marzo successivo a 23 anni di carcere. Ora, guardate queste date. Sono quelle dell’inizio della pandemia, o almeno della consapevolezza della pandemia, delle prime zone rosse, dei primi lockdown in Occidente.

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Courtesy Einaudi
La verità è che, di Harvey Weinstein, oggi non ci importa più niente.

Né che la condanna sia stata giusta, debole o eccessiva. Né che sia stata davvero esemplare. Né che le accuse di molestie sessuali da parte di oltre novanta donne fossero legittime. Né che fossero una bomba che ha scardinato squilibri antichi come il mondo, ed era ora. Né che fossero denunce opportuniste e tardive, come hanno pensato e probabilmente ancora pensano in molti.

È la storia di un’altra epoca, di un altro mondo, di un altro pianeta. Però, e questa è l’unica cosa che conti davvero, ha compiuto la sua missione. Oggi le avances sgradite si chiamano molestie, oggi se qualcuno ti mette le mani addosso sai che puoi denunciarlo, oggi il ricatto “sesso in cambio di un avanzamento di carriera” è inaccettabile.

Il racconto di Emma Cline immagina un Harvey molto verosimile. È convinto della propria innocenza mentre riguarda le vecchie foto che lo ritraggono con le sue accusatrici: “Bastava un’occhiata e c’era tutto: le foto di ognuna di loro, che lo abbracciavano. Lo baciavano sulla guancia! Gli si incollavano addosso, premendo il viso contro il suo, praticamente se lo scopavano lì, contro il tabellone degli sponsor. Zio Harvey lo chiamavano, dopo”.

Inoltre, è convinto di poter ricominciare a contare qualcosa, nel cinema. Più che malato di sesso, Harvey Weinstein sembra malato di potere. Più che di essere scagionato, sogna di produrre un nuovo film. È chiuso in casa di amici nel Connecticut, crede di riconoscere nel dirimpettaio lo scrittore Don DeLillo, appunto, l’autore di Rumore Bianco. Si esalta, delirando, all’idea di produrre un film da quel romanzo. Come se intorno a lui non fosse accaduto nulla. Sì, è ai domiciliari, sì, non si può muovere, sì è malandato di salute, ma la testa del produttore è viva, più viva che mai. Vede la macchina da presa, vede la sceneggiatura, vede i titoli di testa. Ricorda momenti strani della sua vita. Un set difficile in India. Un incontro con un guru della meditazione.

Non ricorda le vittorie agli Oscar, ma si culla in una specie di placenta di sensazioni velenose. Consulta Internet, conta chi gli sputa in faccia attraverso i social, ma memorizza il nickname dell’unico commentatore che lo difende. L’unica cosa che capisce, davvero, è che nemmeno sua moglie lo ha mai amato. Ma è una consapevolezza priva di dolore.