“Spectacular, spectacular/No words in the vernacular/Can describe this great event/You'll be dumb with wonderment”. Ci è venuta in mente questa canzone del film Moulin Rouge, ieri sera, assistendo all’inaugurazione ufficiale della Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, edizione numero 77, quella numero zero – ha detto qualcuno – quella dell’era Covid. Dentro e fuori il Palazzo del Cinema, lo spettacolo nello spettacolo c’è stato per davvero tra mille accorgimenti, mascherine, disinfettanti e distanziamenti. Il red carpet senza pubblico ha visto trionfare lei, Tilda Swinton, che nel giro di poche ore è passata dal pigiama palazzo e babucce a un completo da sirena di Chanel e il volto coperto da una mascherina dorata come una regina delle fiabe. Il glamour, anche stavolta, è salvo. Ne abbiamo conferma ulteriore quando sul palco, con lei, è salita Cate Blanchett (con abito alato lurex blu di Esteban Cortazar, già indossato cinque anni fa ad una prima londinese) per premiarla con il Leone d’Oro alla Carriera. L’attrice inglese, visibilmente emozionata, lo ha definito il suo “Leone con le ali”, “il miglior dispositivo di protezione personale per l’anima che possa immaginare”, per poi sollevarlo in aria a favore dei fotografi e gridare al pubblico, in standing ovation, “Viva Venezia! Cinema cinema cinema! Wakanda forever! Nient’altro che amore”, omaggiando il collega Chadwick Boseman, recentemente scomparso, con il saluto-motto che lui pronunciava nel blockbuster Black Panther.

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Credits El_Deseo D.A.S.L.U. / Fotografo Fernando Iglesias

“Due cose mi domando ultimamente – ha tenuto a precisare la Swinton. “Una: quanto, ed esattamente quale, cinema conta per me. Due: come riuscire ad accettare questo immenso onore con una faccia impassibile. Il cinema è semplicemente il mio luogo felice. È la mia vera madrepatria e la sua colleganza, l’albero genealogico del mio cuore. È facile. I nomi sull’elenco di coloro ai quali è stata tributata questa onorificenza sono i nomi dei miei maestri. Sono gli anziani della mia tribù. Sono i poeti del linguaggio che amo sopra tutti gli altri, canto le loro canzoni in bagno”. Per poi aggiungere una frase che ci ha fatto sorridere ed amarla ancora di più: “Sono la ragazzina punk fissata con il cinema che fa l’autostop per la stazione per prendere un treno per le colline ai piedi delle vette delle loro conquiste. E, ad ogni modo, io sto appena iniziando. Dunque, quando chiedo a me stessa come potrei esprimere adeguatamente la mia gratitudine per questo onore, le parole mi vengono meno. Perdonatemi. Le ho esaurite tutte. Sappiatelo: è grave”.

Poter vedere un film dal vivo qui a Venezia – dove è in corso quello che lei a definito “il festival di cinema più venerabile e maestoso della Terra” - è per lei “pura gioia”. “È così bello vedere tutti i vostri occhi aperti e pronti. Vorrei ringraziare la nostra sublime Venezia e il festival per aver alzato la sua bandiera quest’anno, l’anno della visione 2020, per ricordarci che certe cose non vanno da nessuna parte, che mentre affrontiamo i nostri conti, mentre impariamo a riporre la nostra fiducia nell’evoluzione e nei suoi inevitabili cambiamenti (parola da lei pronunciata «ch-ch-changes», alla David Bowie, ndr), mentre grati ci liberiamo irrevocabilmente di quello che ci degrada e ci sconfigge e scopriamo e impariamo ad assumere la responsabilità e ad avere cura di tutti i nostri tesori, sia naturali che culturali, possiamo continuare a fare affidamento sul grande, elastico, vasto, selvaggio, brioso, sconfinato e perpetuamente inclusivo Stato del Cinema”.

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Getty Images

Questa mattina, poi, ancora grande spettacolo grazie a lei e a Pedro Almodóvar che l’ha diretta in The Human Voice, non un semplice corto di trenta minuti presentato qui, in anteprima mondiale, Fuori Concorso, ma una vera e propria pièce teatrale liberamente basata sull’opera di Jean Cocteau. È una donna irrequieta ed elegantissima che vede passare le ore accanto alle valigie del suo ex amante e a un cane irrequieto che non si capacita che il suo padrone lo abbia abbandonato. Due esseri vivi di fronte all’abbandono. Durante i tre giorni dell’attesa, è uscita di casa solo una volta per comprare un’ascia e una latta di benzina. I vestiti – soprattutto quelli nel prologo che sono di Balenciaga (“spettacolare”, è il caso di dirlo, il lavoro svolto dalla costumista Sonia Grande, impreziosito dalla scenografia di Antxon Gomez, dalla fotografia di José Luis Alcaine e dalla musica di Alberto Iglesias) – creano ancora di più l’illusione e la alimentano, trasformandola in una bambola dimenticata in un magazzino (la scena in cui lei entra con un giacca pantalone celesti e occhiali Tom Ford è già cult). A rendere il tutto ancora più evidente è la casa in cui tutto si svolge che è costruita in un teatro di posa, vero palcoscenico dell’azione, la costruzione realistica in cui lei aspetta. Lì la vediamo passare attraverso tutti gli stati d’animo, dalla desolazione alla disperazione fino alla perdita di controllo. Si trucca, indossa un abito nuovo come per una festa, valuta l’idea di buttarsi dalla terrazza, fino a quando il suo ex amante la chiama al telefono. Sarà davvero lui o è un sogno visto che lei ha mandato giù un cocktail di tredici pasticche gialle e rosse e non può rispondere al telefono? Il rischio – insegna Almodóvar qui più che mai – è una parte fondamentale dell’avventura di vivere e di amare. Il dolore è molto presente nel monologo che lui aveva già cercato di inserire in Donne sull’orlo di una crisi di nervi e ne La legge del desiderio, ma vi aveva dovuto rinunciare per mancanza di spazio. Tutto il film descrive lo smarrimento e l’angoscia di due esseri viventi tormentati per la mancanza del loro padrone, ma la vera voce umana del titolo è quella di questa donna che è sempre sul punto di esplodere di fronte all’ipocrisia e alla meschinità dell’uomo. Il cinema, grazie al regista spagnolo che conferma ancora una volta la sua originalità e genialità, è in gran forma. “Il tappeto magico – come ha detto la Swinton nel suo discorso ieri sera - vola quieto e sempre sarà”.