Ha un posto tutto suo nella storia del cinema e nel nostro immaginario. Bellissimo di una bellezza impastata di umanità, autoironia e virilità, andando a piedi nudi nel parco o cercando tutti gli uomini del presidente è diventato grande nell’America degli inquieti e coraggiosi anni 60 e 70. Ma poi ha deciso di restituire un po’ delle sue fortune: con l’attivismo ambientalista (mai abbandonato, anche ora che ha venduto il Sundance Mountain Resort) e scompaginando le regole del gioco con il Sundance Film Festival che ha finito per cambiare persino Hollywood. In sessant’anni di spudorata carriera ha detto e fatto cose difficili da dimenticare. Facciamoci ispirare.

1) Qual è stato il suo primo film?

Uno di Walt Disney. Non aspettavo altro che andare al cinema. Entrare in sala e stare seduto con altre persone mentre le luci si spegnevano. Il buio, la sensazione che sullo schermo stesse per succedere qualcosa di magico, l’energia della gente intorno a te. Ecco, la tecnologia avanzata ha reso la visione più accessibile, con lo streaming e i canali multipli, ma tutte queste cose oggi mi mancano.

2) Com’era lei da teenager?

Guidavo fino a San Francisco e mi sedevo nei caffè di North Beach. Vivevo nella Fernando Valley, un posto pieno di saloni di auto usate e negozi di elettrodomestici. Quando leggo On the Road mi colpisce esattamente come fece Gioventù bruciata, è una freccia al cuore, alla mia identità. È così che mi fecero sentire anche i Beat. Ai bordi di qualcosa. E all’inizio di qualcosa che portava a qualcos’altro.

3) Uno dei suoi primi ricordi importanti?

In terza elementare, alla fine della Seconda guerra mondiale. A scuola iniziò a scorrere una corrente oscura nei confronti degli ebrei. Io non sapevo cosa fosse, un ebreo. Ma improvvisamente la gente mormorando si chiedeva chi lo fosse e chi no. Un giorno Lois Levinson - una mia compagna, davvero in gamba - si alzò in piedi in classe e disse: «Il mio nome è Lois Levinson. Sono ebrea, e molto orgogliosa di esserlo». La classe rimase senza fiato. Quella sera a casa lo raccontai a mio padre e gli chiesi: «Chi sono? Se lei è ebrea, io chi sono?». E lui mi rispose: «Ebreo, e devi esserne orgoglioso». Sono corso in camera piangendo, mi sono detto: “Sono fregato”. Poi ho sentito mia madre: «Charlie, vai a spiegargli». Lui mi ha raggiunto e mi ha spiegato che voleva darmi una lezione: «Siamo tutti uguali».

4) Cosa può dire di sua madre?

Morì a 40 anni, per un’emorragia dovuta a una patologia del sangue che si manifestò dopo aver perso alla nascita due gemelle dieci anni dopo di me. Già il mio parto era stato difficile e i medici le avevano sconsigliato altre gravidanze. Ma voleva così tanto una famiglia che restò di nuovo incinta. La sua morte mi parve così ingiusta. Ma in un modo assurdo mi ha permesso di andarmene per la mia strada, cosa che volevo fare da tanto tempo.

5) Usa ancora i suoi block notes per fare schizzi?

Ora più che mai, da quando sono, diciamo, in pensione. Mi sono detto: “Eccomi arrivato qui, ho fatto questo, sono 50 anni della mia vita ora. Vorrei qualcosa di fresco, di nuovo”. Così sono tornato al punto da cui ero partito: il disegno. L’unica difficoltà di ritirarsi è che non dovresti mai annunciarlo. Perché poi un sacco di gente inizia a dirti: «Prima che tu vada, potresti fare ancora solo questo?».

6) Perché, a un certo punto ha scelto lo Utah?

Per l’anima, per le montagne e per sciare. Ma anche New York, perché mi piace. In tutta onestà è sporca, è dura, è un gran casino. Credo non ci sia qualcosa che non è. Il che è elettrizzante.

7) Cosa può dire del suo primo matrimonio?
Mi sono sposato molto giovane, a 21 anni (con Lola Van Wagenen, ndr). Ovviamente non
voglio sminuire la persona che ho sposato, c’erano un sacco di buoni motivi per farlo… Ma se mi chiede “perché?”, risponderei che è stato per salvare la mia vita. All’epoca era questo che provavo.

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Tom Wargacki

Redford con la prima moglie lola von wagenen e i figli james e shauna nel 1969.

8) Avete perso un figlio di soli cinque mesi: come avete affrontato il dopo?

È stato difficile. Eravamo molto giovani e non sapevamo niente della sindrome della morte in culla, così potevamo pensare solo di aver sbagliato qualcosa. Come genitore tendi sempre a dare la colpa a te stesso. Una ferita che probabilmente non guarirà mai.

9) Festeggerà il suo compleanno?

No! Quando la mia amica Jane Fonda ha compiuto i 40, mi mandò un biglietto: “Per favore, vieni alla mia festa dei 40”. E io le risposi con un altro biglietto: “Quando ho fatto i 40, io sono andato a nascondermi!”.

10) Com’era il cinema degli anni 60 e 70 per le donne?

Più duro di adesso. Jane (Fonda, ndr), soprattutto, fu tra le prime ad avere un ruolo nello smuovere un po’ la situazione. Di sicuro nel riorganizzare le parti femminili. Adesso le cose iniziano ad andare più veloci, finalmente.

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Con Faye Dunaway in I tre giorni del Condor, 1975

11) Di che argomento vuole parlare?

Di qualsiasi cosa. Tranne che di me.

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Con Barbra Streisand in Come eravamo, 1973

12) Qual è il segreto del successo?

Chiuderlo in una teca e non interagire con lui finché non trovi il modo di gestirlo senza finirne schiavo. Sono i fallimenti che ti danno lo spazio per sperimentare e l’abilità di innovare. Ho questa teoria che chiamo “Ritornare a zero”. Ritorni a zero quando pensi di aver raggiunto qualcosa. E quando succede fai tutta la strada a ritroso fino al gradino uno. Ricominci da una diversa angolatura. Ti impegni a fare altri sacrifici e a prenderti nuovi rischi.

13) A volte essere bello è uno svantaggio per un attore, perché non viene preso sul serio. Che ne pensa?

Ultimamente me lo sento dire spesso. Ma nessuno me lo diceva quando ero giovane e disoccupato, quando mi sarebbe servito davvero.

14) Come sceglie i film a cui lavorare?

Resisto, forse a mio svantaggio, alla tentazione di tener conto dell’opinione pubblica. Ci sono registi come Warren Beatty che si servono di sondaggisti e roba del genere. Forse è una scelta responsabile per un cineasta. Ma io non ci riesco.

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Bettmann
Mentre dirige Mary Tyler Moore in Gente comune, del 1980, che gli è valso un Oscar

15) Non teme che il Sundance diventi di massa?

È un rischio. Ricordo sempre ai registi che il festival è per loro. Non loro loro. Loro i film.

16) Sono decenni che si occupa di ambiente. Che cosa l’ha spinta?

Penso sia iniziato tutto quando ero un bambino e crescevo a Los Angeles. Era una bellissima città, con spazi verdi tra le case. Consegnavo i giornali in bici. Sfrecciavo tra i vari quartieri belli e puliti, ma in poco tempo tutto è cambiato. Los Angeles divenne qualcosa alla fine dell’arcobaleno e tutti strepitavano per entrarci. Improvvisamente c’erano i grattacieli, le superstrade, l’inquinamento. La città che amavo scompariva sotto ai miei piedi e me ne andai verso le montagne. Passai tempo nelle Sierre e lavorai al Yosemite National Park, e la connessione con la natura mi colpì come una montagna di mattoni, e dissi: «Qui è dove voglio stare. Dentro e intorno alla natura. La voglio preservare, se posso». Perché era chiaro che fossimo una società orientata allo sviluppo, ma il punto era che se avessimo pensato solo a quello, non sarebbe restata natura.

17) Una volta disse che all’inizio aveva preso la questione ambientale un po’ troppo di petto per risultare efficace. Ce lo spiega?

Quando sei giovane, sono le emozioni ad assalirti se vedi la terra trasformata in un colabrodo. Ma poi inizi a osservare il quadro d’insieme. La gente ha bisogno di lavorare e non può permettersi di riconoscere che il suo lavoro inquina. Puoi urlare e battere i pugni, ma così diventerai presto un estremista prevedibile facile da ignorare: “Eccolo che ricomincia”. Oppure, puoi affrontare la questione con un approccio pragmatico, dietro le quinte.

18) C’è chi dice che il Papa non dovrebbe parlare di mutamenti climatici perché non è un esperto di scienza. Che ne pensa?

Per favore, è un insulto. Rendo omaggio a ciò che dice, perché ricolloca questo tema nel luogo in cui deve stare, tra le istanze morali, e quindi ha una componente spirituale. Perché non si tratta di politica. Se lo riduciamo a politica, avremo il solito yin e yang, i soliti vecchi problemi, le solite vecchie battaglie, il solito ottuso battibecco tra ideologie. Il solito casino. Andiamo oltre a tutto questo.

19) Come ha gestito il fatto di essere una celebrità?

Ho capito che ci sono tre fasi che riguardano il successo. Nella prima ti vedono come un oggetto. Lentamente non sei più solo te, ma anche un oggetto per le altre persone, che non ti conoscono veramente. Se non stai attento, scivoli verso l’altro livello, passi da essere trattato come un oggetto a vederti come un oggetto. E allora devi stare molto attento, perché il passo dopo è diventarlo, un oggetto. E a quel punto ti perderai completamente.

robert redford in all is lost, 2013pinterest
Courtesy
In All is lost, 2013

20) È cambiato il regno del cinema?

No, Hollywood cambia solo per una ragione: la paura. L’intera città è edificata sulla paura.

21) Lezioni che ha imparato lungo la strada?

Segui il tuo istinto. E riconosci che farlo è un business. Non aspettarti che l’arte da sola giochi chissà che ruolo, perché lo fa nella misura in cui aiuta il business. Viviamo in una società orientata al profitto, non cambierà facilmente.

22) Perché ha girato Quiz Show, su un quiz televisivo truccato?

È lo scandalo che ha segnato la fine dell’innocenza. Oggi quel genere di eventi non farebbe sollevare nemmeno un sopracciglio. Ma allora, scoprire che possiamo essere così malleabili, che gli eroi ci possono mentire, ci sconvolse. Era la prima volta che potevamo vederlo, quel fatto segnò il declino della moralità americana. Penso abbia condotto all’atmosfera che portò a menzogne e scandali ben più grandi: il Vietnam, il Watergate, l’Irangate.

23) Nel 2005, quando ricevette il Kennedy Center Honor, George Bush la invitò con la famiglia a una cena di Stato alla Casa Bianca. Com’è andata?

È stato incredibile. C’erano nemici giurati, leader che di giorno, in pubblico, si picchiavano a sangue, che appena si sono chiuse le porte sembravano diventati una grande famiglia felice. Condoleezza Rice si alzava a chiacchierare sorridendo, con modi dolci e gentili. A me sembrava tutto così bizzarro. Poi ho visto l’allora senatore repubblicano Bill Frist zigzagare fra i tavoli, andare dietro Ted Kennedy e iniziare a massaggiargli le spalle, facendo battute come se fossero vecchi amici. Tutti stavano cambiando schieramento e ridacchiavano tra loro. A quel punto ho capito: «È solo un grande gioco», mi sono detto. «In pubblico devono recitare la parte. Ma sono tutte stronzate».

24) Qual è l’idea alla base del Sundance Institute? Prendere registi di esperienza che avevano già fatto la gavetta e avevano successo tra il grande pubblico - gente come Oliver Stone, Sydney Pollack e George Roy Hill - per fare i mentori ad artisti ancora grezzi e senza esperienza. Farli lavorare insieme a dei progetti, dalla scrittura del soggetto alla postproduzione. I giovani avrebbero messo alla prova i registi affermati, che sarebbero diventati più innovatori e provocatori. Come risultato di questa scambio, il Sundance è diventato una forza rigenerante per Hollywood, e la cinematografia commerciale è stata influenzata da quello che stavamo facendo lì.

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Randall Michelson Archive
In un intervento al Sundance Film Festival (quest’anno sarà dal 28 gennaio al 3 febbraio, in digitale)

25) Il festival può diventare irrilevante in un’epoca in cui chiunque su YouTube è un regista indipendente?

No, perché offre quel che non puoi ottenere sedendoti davanti al computer. Abbiamo dato qualcosa a chi va in sala: un’esperienza. I grandi cinema hanno creato ambienti respingenti: muri sottili, 20 sale, biglietti alle stelle. La gente è rumorosa, ti spingono a entrare e uscire più in fretta che puoi, dandoti in pasto un film e sei trailer roboanti. Il Sundance va nelle città con una catena di sale che sono un punto di incontro per la gente che ama il cinema. Strutture che collaborano con le organizzazioni artistiche locali e le università e si respira l’atmosfera dei laboratori in cui nasce il cinema.

26) Chi è il suo migliore amico?

Se ne avessi uno, probabilmente direi che è Paul Newman. Non so cosa non farei per lui.

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Sunset Boulevard
Con Paul Newman in Butch Cassidy, 1969

27) Sembra felice quando sparisce dalla vita sociale. È così?

Ma no, sono pronto a infilarmi lo smoking... Solo per la festa giusta.

28) Le dà fastidio se i giornali parlano del suo aspetto?

Ero a Yale per ritirare un premio. Il giorno dopo, un articolo per prima cosa riportò che indossavo jeans su misura. Stronzate. Compro la maggior parte di quello che metto da Wolfe’s Sporting Goods, a Orem, nello Utah.

29) Riceve ancora attenzioni sessuali dalle sconosciute?

L’energia sessuale è sempre stata nell’aria e lo è ancora. Ho 71 anni, e la percepisco. In un certo senso è anche più intensa di prima, perché ora arriva da tutte le fasce di età: teenager, nonne, bisnonne! Il periodo peggiore però è stato dopo Proposta indecente. Dio mio, che roba. Non potevo fare un passo senza sentire: «Un milione di dollari per una notte con tua moglie».

30) Cosa vuol dire fare le cose a modo suo ?

Posso firmarti un autografo, posare per una foto con zia Sally, ma questo non significa che mi conosci o capisci davvero chi sono. E non dirmi dove andare o chi devo richiamare. O cosa dire. O cosa indossare. Sono fatti miei. Balliamo con la mia musica o non balliamo affatto.

robert redford and his girlfriend attend the premiere of "lions for lambs" in paris photo by eddy lemaistrecorbis via getty imagespinterest
Eddy LEMAISTRE
Con la seconda moglie Sibylle Szaggars, artista e attivista ambientale, sposata nel 2009

- Rolling Stone, ottobre 1980 - Esquire, marzo 1988 - The New York Times, 4 maggio 1992 - The New York Times, 21 agosto 1994 - Rolling Stone, ottobre 1994 - Harvard Business Review, 4 maggio 2002 - The Guardian, 14 agosto 2004 - Playboy, novembre 2007 - AARP The Magazine, Marzo/Aprile2011 - UN News, luglio 2015 - Walker, novembre 2016 - Little White Lies, dicembre 2018 - Collider, dicembre 2019