Essere un influencer non significa essere famoso, ma essere famoso aiuta il ruolo dell'influencer. Suggerire se comprare e dove, promuovere brand, mostrare e raccontare la propria vita sui social, è un impegno quotidiano e in molti casi anche ben remunerato. Il concetto di Internet famous è diventato comune con l'ingresso capillare delle piattaforme, e delle strategie di marketing, nello scroll di ogni giorno. Ma non sempre le cifre della community sono reali e autentiche. "Il numero di followers di un influencer è vero successo?" ci si chiede nel documentario Fake Famous, in streaming in USA su HBO Max. È da questo assunto molto dibattuto online che si sviluppa l'esperimento sociale secondo la definizione del regista Nick Bilton: trasformare comuni mortali in influencer ingannando Instagram e le sue rigide policy con l'acquisto mirato dei bot, generatori automatici e illegali di commenti/like/followers.

Diventare influencer è una delle professioni più ambite. Ma di cosa? Il termine di per sé è onnicomprensivo: in linea generale, si definisce influencer chiunque possa influenzare qualcosa, sia una riflessione su un argomento o spingere a un acquisto, grazie a una forte credibilità e fiducia presso la propria community di followers. Un potere che porta responsabilità: su Instagram, TikTok, Snapchat (che sta iniziando a pagare i suoi top profiles per produrre contenuti interessanti, scrive il New York Times), molti influencer sono attivisti per i diritti civili e si spendono incessantemente per la sensibilizzazione su temi sociali da #BlackLivesMatter alla causa LGBTQ+, diritto alla salute, antifascismo, politica, educazione sessuale. Non è questo il tema del documentario Fake Famous, che si concentra piuttosto sullo stereotipo dell'influencer che riceve regali costosi e ha i viaggi pagati dai brand, aspirazione massima per molti adolescenti e bambini americani. Dopo un casting mirato che ha coinvolto 5.000 provinanti entusiasti, i tre prescelti -l'aspirante stilista Chris Bailey, l'attrice in difficoltà Dominique Druckman e l'assistente personale Wylie Heiner- si sono messi a disposizione del team del documentario per diventare Instafamous. Da giugno 2019 a settembre 2020 sono stati ripresi previo lavoro certosino sui topoi dell'immaginario collettivo per alimentare la crescita in positivo dei profili e certificare lo status di influencer famoso: shooting patinati ad arte, location inventate (mai provato a fingere di essere in aereo utilizzando una foto sullo schermo del pc e la ciambella del water?), finte interazioni comprate a intervalli specifici per non incappare nella scure di Instagram. Le difficoltà non sono mancate: gestire tre personalità completamente diverse ha portato a esiti inaspettati, Chris è andato nel panico perché la sua community ha scoperto i finti followers e lo ha ricoperto di accuse pubbliche, Wylie non ha retto al fingersi altro da sé. Solo Dominique è riuscita a bilanciare il fake e il reale, sfruttandolo come opportunità extra di carriera.

Nei ranghi della regia, anche Bilton ha dovuto tenere sotto controllo la paura della scoperta dell'impalcatura dei fake e l'eventuale fallimento del suo progetto. "Mi sono reso conto da subito che la struttura narrativa che avevamo scelto non era la scelta più furba per un regista al primo film. Sembrava che a ogni momento tutto potesse essere scoperto e il film sarebbe crollato" ha raccontato ad Airmail. Con il rischio di implicazioni legali: i brand che regalavano free stuff avrebbero potuto accusarli di truffa, visto che i numeri non erano reali. La compravendita illecita di followers e commenti poteva trasformarsi in un boomerang e richiedeva la massima attenzione per una crescita il più pulita possibile: "Compravo i bot mentre guidavo, a colazione, a letto alle 3 di notte, anche mentre cambiavo il pannolino a mio figlio. Dovevo andare nel profondo di Internet per trovare i migliori venditori (che di solito sono ragazzini e vivono in posti lontanissimi, tipo Egitto e Ucraina) che non mi fregassero" scrive ancora Bilton, rammentando alcune truffe dopo il pagamento. "Non potevo farci molto. Che faccio, chiamo la polizia e dico che alcuni bot fake che ho comprato per un documentario non mi sono mai stati spediti da un 14enne egiziano?". Il lockdown mondiale di marzo 2020 ha modificato il progetto in corsa, ma il doc è riuscito nell'intento di dimostrare come la fama di certi presunti influencer sia espressione di un autentico culto per la finzione che porta preziose interazioni, moneta di scambio dell'influencer marketing. "Quello che ho capito durante la realizzazione del film è quanto la influencer culture ti faccia stare male. Cosa può fare agli adolescenti? Li fa sentire male con loro stessi" ha detto Bilton a USA Today. "La mia speranza è che più capiscono quanto sia tutto costruito su un castello di carte finte, meno persone vorranno averci a che fare".