Si chiama Celeste Epiphany Waite, ma vi basta segnarvi il primo nome, Celeste, e tenerlo a mente se già non la conoscete. Ha solo 26 anni, un album appena uscito (Not Your Muse), una nomination ai Golden Globe per la canzone Hear My Voice che fa parte della colonna sonora del film di Aaron Sorkin Il processo dei Chicago 7. La sua voce, che potete ascoltare anche nel duetto con John Batiste nel film Soul ricorda quella di molte grandissime cantanti, da Nina Simone ad Amy Winehouse.

Nata negli Stati Uniti da mamma anglo-giamaicana, dopo il divorzio dei genitori, si è trasferita in Inghilterra ed è a casa sua, a Londra, che la vedo nella finestra di Zoom. A fine 2019, quando nessuno di noi aveva familiarità con Zoom, Celeste aveva vinto un premio per musicisti emergenti intitolato “Sound of 2020” che, a pensarci adesso, suona malissimo. Soprattutto perché Celeste ha dovuto interrompere il suo tour che stava avendo enorme successo. Indossa un delizioso maglioncino a righe grigie e rosa con delle stelle in rilievo, mi scrive in chat il marchio, è di Kiko Kostadinov.

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Le dispiace, come a me, fare l’intervista a distanza?
Molto. Incontrarsi e lavorare in questo modo si può, abbiamo imparato a farlo ma resta il fatto che la maggior delle cose che diciamo, le cose più importanti che diciamo, le diciamo con il nostro corpo, non escono dalla bocca. Mi manca moltissimo stare con le persone nella stessa stanza. E glielo dice una che ha praticamente inciso un album e fatto due collaborazioni importanti, come quelle per i film, proprio in questo ultimo anno.

Torneremo a vederci dal vivo? I costi si sono abbattuti, forse si continuerà a lavorare così.
Lavorare così può piacere davvero solo a quelli che odiano viaggiare! (ride, ndr) Vediamo se in futuro vinceranno i soldi o il bisogno di calore umano!

Come ha capito che la musica sarebbe stata la sua strada?
È stato molto graduale, ho cominciato verso i 18 anni e, in men che non si dica, mi sono accorta che ero completamente immersa nella musica, tutta la mia energia andava lì anche se non sapevo se ce l’avrai fatta a trasformarla in una professione. Ci ho provato, ci sto provando. Non sono il tipo che pensa di essere stata mandata sulla terra per essere un’artista (ride, ndr).

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Mia Clark

Molti giornali hanno scritto che lei ha un’anima all’antica, i suoi riferimenti musicali sono nel passato.
Un po' è vero. Del resto, sono una figlia unica cresciuta in mezzo a persone adulte, mia nonna nata negli Quaranta, mia madre negli anni Sessanta. Mia nonna teneva le sigarette in un astuccio di cuoio, la mia bisnonna, che ho fatto in tempo a conoscere, raccontava di quando girava su una carrozza a cavallo. Mi hanno trasmesso molto di questi mondi di ieri e dell’altro ieri.

Macchina del tempo. C’è un'epoca particolare in cui le sarebbe piaciuto vivere?
Gli anni Sessanta, credo. Tanta energia, nuova musica, nuova moda. Ma forse anche gli anni Trenta benché credo fosse molto duro essere una donna di razza mista a quei tempi.

E com’è adesso?
Nella mia carriera non posso dire di avere avuto problemi a causa del colore della mia pelle. Gli ostacoli sono altri, sono socioeconomici. È molto difficile sfondare nell’industria della musica se provieni, come me, da una famiglia normale, senza contatti nel mondo dello spettacolo. Molti si buttano sui talent show e poi vengono terribilmente sfruttati e manipolati. Io ci ho messo quattro anni per riuscire a mantenermi davvero con la musica. I miei mi hanno sempre sostenuto con l’affetto, ma non potevano farlo finanziariamente. Ecco perché, per un bel po’, ho fatto lavori come la cameriera e la commessa.

Adesso è anche testimonial per Gucci.
Circa un anno fa quelli di Gucci sono venuti a vedere un mio concerto, gli è piaciuto il mio stile e hanno cominciato a darmi dei vestiti per i miei show e mi hanno anche invitata alla loro sfilata. La campagna l’abbiamo scattata a dicembre, di mattina prestissimo, saranno state le 5, in Hyde Park, vicino al memorial della principessa Diana. Mi piace il mondo Gucci, mi piace il loro messaggio di inclusione, il loro modo di valorizzare la diversità.

A proposito: ha mai pensato di stirarsi i capelli?
L’ho fatto spesso, da teenager. Ma ho imparato la lezione. I capelli si rovinavano completamente. Allora ho deciso di lasciarli crescere naturalmente, così come sono, e mi sento a mio agio così.

L’album si intitola Not your muse. Suona come un messaggio femminista. È così?
Solo perché a cantarlo è una voce femminile. In realtà, io mi rivolgo a tutti. Questa è l’ultima canzone che ho scritto per questo album, dopo aver attraversato momenti abbastanza difficili. Mi volevano spingere verso una musica più commerciale, rendermi più pop, mandandomi in confusione. A un certo punto stavo davvero perdendo la fiducia in me stessa e nelle mie capacità. Ho dovuto fermarmi e poi ricominciare senza nessuno intorno che mi facesse pressione. Adesso l’album è al primo posto in UK e molti di quelli intorno a me non pensavano che ci saremmo potuti arrivare. Ma anche se non fosse stato un successo commerciale, io sarei stata contenta lo stesso perché ho seguito il mio istinto e ho fatto di testa mia.

Una delle canzoni dell’album si intitola Tell me something I don’t know, cioè “dimmi qualcosa che non so”. Ecco, mi dice qualcosa che non so di lei?
Le parlo del mio ragazzo, va bene? Non avevo mai avuto una relazione seria prima di adesso, anche perché ero sempre in giro. La nostra storia è iniziata durante il lockdown! Mai prima di allora mi era capitato di passare tanto tempo con una persona. Lui si chiama Sonny Hall, è un poeta, il suo ultimo libro si intitola The Blues Comes with Good News. Ha attraversato momenti difficili nella vita, io lo ammiro e lo adoro. Mi ha aiutato a capire chi sono.

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Sophie Jones