Per una volta un documentario su una celebrity non è abbastanza lungo, ci voleva una miniserie. Framing Britney Spears, il sesto episodio del ciclo di documentari curati dal New York Times per FX e Hulu (non disponibile per ora in Italia) in soli 75 minuti cerca di raccontare gli alti e i bassi della carriera e della vita personale della popstar americana. Buona parte del documentario è dedicato alla vicenda del suo patrimonio, controllato dal padre Jamie Spears dal 2008, e alla campagna di sensibilizzazione dei fan di Britney nota con l'hashtag #FreeBritney. Stando a quanto descritto nel documentario, la situazione in cui si trova la cantante ora è unica e abbastanza sospetta, ma più che discutere della complicata questione legale ancora in corso, il dibattito pubblico si è focalizzato sul tema del (mal)trattamento mediatico che sin dall'inizio degli anni Duemila ha subito Britney Spears.

Framing Britney Spears è convincente nel farci pensare che Jamie Spears sia un cattivo padre interessato unicamente al denaro e che noi siamo stati altrettanto parte del problema, perché non riuscivamo a non commentare quant’era svestita ai VMAs con il serpente, quanto pretendeva di essere una Lolita su Rolling Stone, quanto era andata fuori di testa quella volta che si era rasata i capelli a zero e dicevamo “poverina”. Allora nessuno si era fermato a domandarsi quanto fosse assurdo che un’intera nazione fosse ossessionata con la verginità di una cantante. Nessuno ha fatto notare come fosse di cattivo gusto sfruttare il fallimento della loro relazione per vendere il singolo di Cry me a river, come ha fatto Justin Timberlake per lanciare la sua carriera da solista. Dopotutto, la ragazza-finta-ingenua della scuola aveva spezzato il cuore al quarterback, era ovvio chi fosse la vittima.

west hollywood, california   september 15 signs in support of britney spears are seen during a freebritney protest outside of the tri star sports  entertainment group offices on september 15, 2020 in west hollywood, california photo by rich furygetty imagespinterest
Rich Fury//Getty Images

Il documentario è così snello che non perde tempo per dimostrare il talento di Britney Spears né coglie l'occasione per toccare temi tuttora estremamente rilevanti. Poteva essere una riflessione su come l’auto-oggettificazione della donna si sia rivelata in questo caso una distopia femminista, perché la consapevolezza di Britney della sensualità del suo corpo era solo una forma di controllo apparente. Manca una reale descrizione del contesto politico di quegli anni - eravamo in pieno scandalo Lewinsky-, della fascinazione per il white trash americano, di Britney primissima pop star in un mondo di boyband che apre i cancelli a Christina Aguilera e Pink, di come i testi delle canzoni sono diventati l'unico strumento per raccontare la sua storia (un esempio tra i tanti: Circus, “All eyes on me in the center of the ring just like a circus”).

las vegas, nevada   october 18  singer britney spears attends the announcement of her new residency, britney domination at park mgm on october 18, 2018 in las vegas, nevada spears will perform 32 shows at park theater at park mgm starting in february 2019  photo by ethan millergetty imagespinterest
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Ne esce vincente con una brevissima apparizione Paris Hilton, che con Britney e la it girl Lindsay Lohan ha condiviso quegli anni folli sotto i riflettori. È l'unica intervistata che non ha avuto legami lavorativi con Britney Spears a parlare di lei con toni affettuosi e sembra sinceramente preoccupata per la sua salute e i suoi diritti di donna adulta. Il più grande perdente è invece Justin Timberlake che, a una settimana dall’uscita dell’episodio e dopo chissà quante tag minacciose, ha rotto il silenzio con delle scuse pallide, blande e così vaghe che ci si chiede se le abbia tenute nella cartella “metti che un giorno” (non sono nemmeno scuse scritte per Britney, ha aggiunto al calderone Janet Jackson per l'episodio chiacchieratissimo del Super Bowl del 2004. Certe volte anziché chiedere scusa su sollecito, in malo modo e con 15 anni di ritardo, è meglio lasciare perdere). Gli altri grandi perdenti siamo noi, che leggevamo Perez Hilton per poi oggi rivalutare Paris Hilton, e che ci ritroviamo a dire mea culpa su Twitter per i peccati di venti anni fa e un attimo dopo siamo su un sito di gossip nella speranza di vedere un'altra foto rubata di un miserabile Ben Affleck post Ana de Armas. A lui chiederemo scusa forse tra vent'anni, su un social che non esiste ancora.