Nell'anno del settecentenario dantesco le iniziative di celebrazione del Sommo Poeta sono presentate al pubblico in una gamma molto vasta di nuance, che va dall'attesissima mostra di ottobre alle Scuderie del Quirinale, a cura di Jean Clair, fino al kit mantello Wicca e corona d'alloro in plastica, presentati su Amazon in abbinata come spunto per un possibile cosplay alighieriano. Non deve stupire allora che anche uno show della prima serata di Canale 5 (Felicissima sera, in onda per tre puntate dal 16 al 30 aprile) ponga al centro della sua estetica un omaggio a Dante e, in particolare, all'ordinamento penale del suo Inferno. I due comici che conducono lo show, Pio D'Antini e Amedeo Grieco (entrambi classe 1983, in piena età da Divina Commedia e anch'essi, a loro modo, grandi promotori dell'uso del volgare), sono infatti rappresentati come protagonisti di una discesa agli inferi, nel ventre dello show business italiano (Mediaset). Gli ospiti del programma, dal canto loro, piuttosto che essere al centro di encomi, esibizioni, interviste, sono sottoposti a supplizi uguali o contrari alle loro rispettive colpe, artistiche o esistenziali (fra cui non manca quella, comune a tutti, di aver accettato l'invito a partecipare a Felicissima sera).

"Felicissima sera" è il sogno a occhi aperti di un animatore di festa patronale

Due cabarettisti che deambulano sul palco in mutande, urlando e invitando Umberto Guidoni a mangiare salamini Beretta, dopo avergli chiesto com'è andare di corpo nello spazio. Quelle horreur!, diranno i nostri eleganti lettori, corsi nel frattempo a mettere una mano a Mediaset Play e, subito dopo, l'altra alla rivoltella. Un francesismo in parte comprensibile, non c'è dubbio, ma probabilmente anche un po' affrettato. Felicissima sera è infatti molto più di quello che sembra a prima vista, e cioè il sogno a occhi aperti di un animatore di festa patronale che, grazie a un miracolo della moltiplicazione degli sponsor, si trova a gestire una sagra altospendente, con la cassa armonica che diventa buca dell'orchestra e la statua del Santo che diventa Achille Lauro (tra gli ospiti della seconda puntata), come se San Severo (FG, di cui i conduttori sono originari) potesse trasmutarsi idealmente in una Sanremo sovversiva. Il vero della trasmissione è l’unione mistica tra due format di spettacolo che nascono diversissimi ma che qui si fondono: il varietà televisivo e l'invettiva da ristorante tipo Cencio La Parolaccia. Non c’è mito che, con quel budget, non possano sfatare: chiedono e ottengono di fatto chiunque; anche De Gregori che, sul finale della prima puntata, concedendo a tutti – e quindi anche a se stesso – l'indulgenza plenaria, canta Viva l'Italia. Tanto, nella loro logica luciferina, la presenza stessa, sul palco, di qualsivoglia icona è prova già di per sé abbastanza flagrante di un suo reato: che sia cupidigia, superbia o vari Negroni sbagliati composti a partire da esse.

Pio e Amedeo sono Dante e Virgilio di un nuovo viaggio fatto con premesse culturali o anti-culturali

simili a quelle del loro exploit Emigratis, ma su scala decisamente maggiore, anche perché il paese straniero che visitano, questa volta in prima classe, è la televisione intera. Il tradizionale Lasciate ogne speranza, voi ch'intrate resta dunque ancora attualissimo, mentre la raccomandazione Non ti curar di loro ma guarda e passa è aggiornata alla variante: fatti i fatti loro e infierisci. Nel suo piccolo grande cerchio Claudio Baglioni (quello dei vanitosi, seconda puntata) si lascia smaltare le unghie di nero, alla Måneskin, dai due satanassi, persuaso dell'importanza di allargare il suo posizionamento a nuovi segmenti di pubblico, e a sfuggire così all'obsolescenza, dopo essere stato costretto a ricantare Porta Portese sostituendo il passaggio abituale sulla foto nuda di Brigitte Bardot con una di Dayane Mello. I processi umoristici messi in atto da Pio e Amedeo sono simili a quelli degli imitatori, ma non sono quasi mai loro stessi a impersonare le vittime: sono invece favoreggiatori di articolati video-selfie caricaturali eseguiti dagli stessi ospiti, nel corso dei segmenti a essi dedicati, grazie a un processo maieutico che li vede immancabilmente contorcersi nelle fiamme dell'autoparodia. Achille Lauro, posto davanti al rischio di essere troppo stiloso per lo zoccolo duro del pubblico di Canale 5, intona una versione di Rolls Royce convertita alla Fiat Punto, in collaborazione coi due conduttori che indossano di fatto un travestimento del suo travestimento, in cui il giovane e bello Lauro finisce per specchiarsi come al cospetto di due ritratti di Dorian Gray ancora più raccapriccianti dell'originale wildiano, perché semoventi (sebbene con qualche deficit di coordinamento psicomotorio). Sketch dopo sketch è evidente che il linguaggio di Pio e Amedeo è effettivamente casereccio ma, a ben guardare, quello che può sembrare semplice, carnascialesca cospirazione ai danni dell'ordine costituito, invece è metodica e quasi virtuosistica applicazione dei principi del contrappasso dantesco, al fine di sopprimere sistematicamente le ultime, vaghe tracce di mostri sacri presenti nello star system italiano sostituendole, semplicemente, con dei mostri.

Proprio come nella Commedia, ogni dannato è da esempio per tutta una categoria di riferimento

Il castigo inflitto a Tommaso Paradiso, per complessità produttiva, costituisce l'apice delle prime due puntate già trasmesse dello show. La sua punizione è essere sottoposto alla gavetta che non ha mai fatto: il cantante di matrimoni. Strappatigli di dosso gli abiti da concertista in bandana e sex appeal, messi da parte perfino gli onnipresenti occhiali scuri, Tommaso è sottoposto a una piccola folla di convitati pugliesi dai gusti musicali molto precisi e molto diversi da quelli delle ragazze che amano praticare la disciplina sportiva del lancio del reggiseno al Circo Massimo. Il format iconografico è quello delle Nozze di Cana del Veronese, ripreso da tanti di dipinti e addii al celibato successivi. Come nella tela del Louvre il presunto protagonista è al centro compositivo della scena ma intorno a lui, da ogni parte della sala per banchetti che dovrebbe presiedere, succede davvero di tutto e pochi sembrano fare a caso a lui, che vorrebbe proporre subito il suo classico medley da Love a Riccione, ma deve prima esibirsi in Sciolgo le trecce ai cavalli. Se quello di Paradiso è il kolossal della serie di supplizi (se non altro per numero di comparse e minutaggio), quello che tocca Emanuele Filiberto di Savoia è quello più complesso semanticamente e poeticamente. Al termine di un'intervista alla Che tempo che fa realizzata impiegando una scrivania-acquario piena di cozze (di cui diversi esemplari vengono rumorosamente consumati da Amedeo nei pressi del nobile ospite), il principe viene issato sulle spalle di Pio e Amedeo ed esposto alle folle televisive come un Simba cresciuto troppo in fretta, mentre la vera Ivana Spagna (i doni del budget) intona il pezzo di apertura del Re Leone disneyano. Forse sarebbe stato meno moralmente violento sottoporre l'erede di Casa Savoia al supplizio medievale dello schiacciadita, rispetto al sottotesto implicito e criminale: Un giorno tutto questo sarebbe dovuto essere tuo; eppure lui, comunque, sorride, precario com'è sulle spalle dei suoi aguzzini, ma appagato da questo rinnovato momento di visibilità, come se fosse un'incoronazione di per sé. È un atto caratterizzato da una crudeltà di fondo che è cugina di primo grado di quella messa in atto dal duo già ne Gli ultras dei Vip, la rubrica più infame prodotta per Le Iene, ma qui appare più complessa, più potente, più estesa. Proprio come nella Commedia, ogni dannato è da esempio per tutta una categoria di riferimento: in questo caso, i monarchi mancati di qualunque regno.

Un varietà che ha voluto fare dell'assenza di morale il suo emblema

Questo frullatore di realtà, che produce ottimi ascolti, non consente però ai nostri Dante e Virgilio una sospensione dell'autocritica: l'ironia applicata agli altri è la stessa che applicano a sé. La pena che si autoinfliggono, infatti, con la complicità di Maria De Filippi nelle vesti di diavolessa, è collocata già all'apertura della prima puntata. Proprio loro, gli irriverenti castigatori del malcostume televisivo di cercare lo psicodramma a tutti i costi; quelli che, nella puntata successiva, cercheranno in ogni modo di far commuovere Francesco Totti, arrivando a mostrargli foto di figli a raffica in stile Cura Ludovico, si sottopongono a una seduta defilippiana in piena regola, con tanto di ricordi d'infanzia e carrambate di genitori in studio, finendo per piangere, proprio loro, lacrime vere. È il momento moralmente più alto di un varietà che ha voluto fare dell'assenza di morale il suo emblema. Pio e Amedeo in prima serata costituiscono una delle possibili rivincite definitive del popolo sulle élite. Per quanto il loro varietà possa sembrare improvvisato e scanzonato, è frutto di precise strategie da guerra di logoramento, portate avanti per anni in tutte le forme in cui i foggiani hanno saputo incarnarsi, con l'obiettivo di scardinare quel poco che è rimasto in piedi dell'ancien régime dello showbiz italiano. Realizzandolo, beninteso, molto più fattualmente di quanto una certa forza politica pretendeva di fare col Parlamento, usando la metafora della scatoletta di tonno: loro lo stanno facendo con la televisione con la facilità con cui si rimuove la plastica da una vaschetta di salamini.

Felicissima sera è la vera rivincita del popolo in televisione

perché non avviene mediante un appiattimento dello spettacolo verso il trionfo degli ultimi e dei disagiati psico-attitudinalmente, come in Ciao Darwin; o nella punizione fittizia dei belli e famosi, come in qualunque variante per celebrità di un reality. I due mondi sono messi a confronto, accuratamente soppesati e i belli e famosi hanno la peggio senza alcun ritegno. È un momento particolarmente liberatorio quando, sul finire di ciascuna puntata, dopo la consueta serie di visite alle bolge, appare finalmente una visione celeste, o almeno la forma di celestialità più vicina alla sensibilità dei due conduttori. È l'appuntamento con i cantanti local di estrazione meridionalistica, che appaiono attorniati da una piccola schiera diversamente angelica di cubiste, per la serie: i cantautori vanno all'inferno, i neomelodici dappertutto. Nella concezione di Pio e Amedeo, il Paradiso ha pochissimi posti riservati. Solo Alessio (di Ancora noi, cfr. Gomorra) e Gianni Celeste (sic), superati indenni un giudizio universale del tutto particolare, hanno il diritto di accedere a questo cielo in terra. A Pio e Amedeo, ancora una volta Virgilio e Dante della loro Commedia profana, spetta il compito di descrivere – un po' a parole e molto a gesti – l'entità delle beatitudini delle creature che li accompagnano, nella gloria di ciò che di materialistico e carnale ci può essere in questo empireo rovesciato. Il programma record di ascolti di Pio e Amedeo funziona al contrario rispetto al circolo evocato da una celebre battuta di Groucho Marx. In ogni scena e in ogni dialogo i foggiani sottintendono: Vorrei far parte di un club che non accettasse tra i suoi soci uno come me.

E di quel club si sono appena autoproclamati Presidenti disonorari.