L'universo defilippiano è una forma di spettacolo che ha come obiettivo il raggiungimento dell'autosufficienza completa del programma televisivo rispetto alla realtà, così come certi progetti, altrettanto ambiziosi, versati nel campo delle energie rinnovabili, nascono per l'affrancamento dell'economia dal carbone fossile.

L'attesa della finale di Amici 2021 è stata un'occasione per riflettere, in generale, sui meccanismi del funzionamento di questo universo e, in particolare, sul ruolo che vi giocano i tre giudici. I quali, nell'edizione di quest'anno più che mai, Stefano Di Martino, Stash dei The Kolors e, soprattutto, Emanuele Filiberto di Savoia, sono stati selezionati con intento simbolico e programmatico. Più di ogni altra categoria umana (professionale o dilettantistica, stabile o interinale) che abiti il mariaverso, infatti, le figure dei giudici – istituite come parvenza di oggettività e imparzialità in un contesto del tutto soggettivo e unilaterale, concepibile solo in funzione della sua demiurga Maria – sono la cartina al tornasole che prova la vanità di ogni tentativo possibile di sfuggire alla prima e unica legge della conservazione del defilippismo:

nulla si crea, nulla si distrugge, ma tutto va in sfida.

Rispetto agli altri show ideati e condotti da Maria De Filippi, che sono perlopiù monografici, Amici è il più iperdefilippiano, perché è il più autoreferenziale nei contenuti e il più orizzontale nella struttura. Uomini e Donne affronta sì una materia vasta (la spettacolarizzazione del corteggiamento) ma possiede pur sempre una sua ragione d'essere specifica: la lunga procrastinazione dell'unione dei potenziali partner che vi concorrono, messa in scena grazie al superamento in chiave di teatroterapia di vecchi programmi televisivi quali il fattualissimo Agenzia Matrimoniale di Marta Flavi (1989-1995; una puntata, uno sposalizio, condotto non a caso da una precedente moglie di Maurizio Costanzo). Oppure, per altri versi, C'è posta per te è un manuale di pornografia emotiva, con tanto di generi e sottogeneri (il ritorno del figliol prodigo come gang bang, ecc.), che risulta quasi accademico per la sua metodicità.

Amici, che mette in scena l'educazione sentimentale di un gruppo di giovani cantanti e ballerini, è invece un’opera d’arte totale, in cui più discipline e format collaborano per un unico scopo: garantire il moto perpetuo a una macchina che somiglia tanto ai vagoni tematizzati dell'inarrestabile treno in Snowpiercer di Bong Joon-ho, fatti talent show. Amici è wagneriano, enciclopedico ed elastico: nelle sole strisce quotidiane, ad esempio, convivono felicemente una parte di Grande Fratello, una parte di telegiornale, un pizzico di Scherzi a parte e talvolta momenti di puro cinema sperimentale. Proprio allo stesso modo di quella locomotiva coreana, lanciata a tutta velocità in un loop intorno al mondo, mentre il mondo è diventato inabitabile, Amici è un ecosistema autonomo e potenzialmente eterno: potresti non vedere o sentire nient’altro ed essere comunque relativamente ben informato su quello che succede intorno a te, perché sta succedendo nelle infinite variazioni sui temi come amore e rifiuto, amicizia e antagonismo, lockdown da pandemia e lockdown da reality, contenute nei testi, nelle coreografie e nei dietro le quinte dei concorrenti.

Nessuno sembra salvarsi dal continuo ruminare dello stomaco defilippiano tranne, apparentemente, proprio i giudici. Quest'anno c'è un tecnico per il canto, Stash, e un tecnico per il ballo, De Martino. In trasmissione, i giudici sono rappresentati sotto forma di spettatori in poltrona (Vanity Fair rossa), cosicché spesso la camera motorizzata si sofferma a comporre immagini dal loro punto di vista, a simulare una fruizione delle esibizioni libera e rilassata, quasi casalinga; mentre intorno tutti si agitano, si commuovono, diventano più o meno famosi, ma loro lo sono già. Liberi dagli impedimenti derivanti dal trascorrere il loro tempo in onda cosparsi di strass o ingaggiati in perenni, pretestuose rivalità o sexual tension (cosa che non riguarda solo i concorrenti, ma anche i loro coach, si vedano Rudy Zerbi e Anna Pettinelli o Rudy Zerbi e Arisa), i giudici sembrano poter vivere liberi da molte delle regole del talent, pur posando i piedi su quel palco magico, che può cambiare colore, forma e sostanza, grazie al sofisticatissimo led wall, in un battito di cipiglio di Maria.

I loro interventi, quando esprimono una preferenza, sembrano funzionare mediante un sistema di vasi comunicanti di eloquenza. Quando Stefano motiva un suo voto con una frase sintatticamente più complessa di "XXX mi hai stupito", puntualmente Stash tende a dire solo il nome del prescelto, perentoriamente, e viceversa. In altre parole, in un contesto iperprodotto e ipercoordinato come Amici, i due sembrano potersi rifugiare in una dimensione asciutta e indipendente.

Ma c'è da considerare una verità inconfutabile. Per quanto possa essere sviluppato il senso del coordinamento psicomotorio di Stefano De Martino e sempre presente il retrogusto funk di Stash, purtroppo, la loro expertise maggiormente valorizzata ad Amici è comunque da rintracciare nel mariaverso stesso: entrambi sono, prima che giudici, prima che artisti, prima ancora che uomini, ex concorrenti di Amici che hanno affrontato le varie le tappe del cursus honorum defilippiano: la gara da allievi, le ospitate da arrivati, il coaching e ora la giuria. Un punto di forza della regia di Amici è quando riesce a rendere dinamico ed empatico il rapporto tra la performance di un cantante e la bocca che non riesce a stare chiusa del suo sfidante. Ma anche Stash canta tutto. Pare conoscere a memoria ogni brano in gara, anche gli inediti, anche al primo giorno.

Quando anche i giudici si esibiscono a loro volta, come accade nel serale del 1° maggio con la coreografia di Jerusalema, tornano in un tratto di copione all'essere concorrenti di qualcosa che non è più solo un numero di danza, ma la reale cagione del loro stare al mondo nell'universo defilippiano. In quei pochi secondi Jerusalema diventa un romanzo di formazione ricorsiva sottotitolato i casting non finiscono mai. In barba a ogni ultimo barlume di metaforica sacralità o autonomia, il prezzo da pagare per essere giudici di Amici è essere sempre giudicati.

Allora, perché in giuria c'è anche Emanuele Filiberto?

Per definire meglio il ruolo del Principe di Venezia all'interno di questo ecosistema ci viene in soccorso un dipinto conservato alla Galleria Borghese: la Caccia di Diana del Domenichino. Rappresenta la dea latina delle selve e degli animali selvatici alle prese con una battuta di caccia insieme alle sue numerose ninfe, mentre viene sorpresa da un cacciatore umano, Atteone, che fa capolino da un cespuglio (e sarà gravemente punito per questo, venendo trasformato in cervo). È Maria la Diana cacciatrice di Canale 5, rappresentata con in mano la sua arma prediletta, che non è un arco come per la figlia di Zeus ma un microfono, a simboleggiare il controllo di ogni sconfinamento della realtà nel territorio della finzione televisiva.

Stefano e Stash, in questa allegoria, non sono meno ninfe delle ragazze e dei ragazzi in gara o dei loro coach: sono parte integrante del mondo di questa dea un po' maschiaccia e venatrice. Emanuele Filiberto è invece chiaramente l'Atteone della situazione, un tempo esiliato dall'Italia, oggi più che mai cittadino onorario della nostra televisione. La dimensione in cui ha fatto capolino è così attrattiva per lui, seduto sul suo trono in pelle Frau, al centro tra i colleghi giudici – che rappresentano le due arti di riferimento dello show come delle muse maschili ridotte in numero – che valutare le barre della versione rap di Sarà perché ti amo o l'espressività di Giulia che balla Womanizer, gli sembra un dono, invece che un castigo, da parte di una Diana non bellicosa ma benevola.

È affascinante come le parole con cui il diciottenne Sangiovanni, il concorrente più originale e profondo di questa edizione, ha salutato il suo accesso alla finalissima – "Mi sono sempre sentito fuori posto in qualsiasi contesto e finalmente qui mi sento compreso” – sembrano idealmente scandite, in un playback mentale, dall'espressione di Emanuele, per un momento di grande televisione che viene immortalato con uno stacco perfetto dalla regia.

Una delle scenografie virtuali più riuscite della stagione è quella pensata dal nuovo direttore artistico Stéphane Jarny per il giovane Tancredi quando, in semifinale, si esibisce in All I Shook Up di Elvis Presley. Il palco diventa un flipper e Tancredi una pallina. L'inventiva del Maestro francese supera sé stessa nel rappresentare la condizione del concorrente che, pur sembrando il proverbiale asinello in mezzo ai suoni, cerca comunque un modo di autodeterminarsi, tra i bumper che concorrono, insieme alla gravità, alle luci, all’ansia, al punteggio, a farlo cadere nella buca. Tutto sommato non è molto diverso da quello che accadrà a Emanuele quando ballerà, poco dopo, un valzer con la coach Alessandra Celentano. Il mondo costruito da Maria De Filippi intorno al talento di una serie di giovani cantanti e ballerini è così variopinto e metamorfico che non può ammettere altra realtà all'infuori della propria. Per questo, quando Maria ha voluto attingere al di fuori dal suo universo, per comporre la giuria, ha scelto proprio Emanuele Filiberto:

paradossalmente, era il personaggio più reale che potesse essere incluso nel cast.