Nell’estate del 2007 me ne andai a Saint-Tropez con i miei amici. Un giorno camminiamo tutti e quattro, come un campionario ambulante di parvenu, sul porto dove i turisti si fanno fotografare davanti alle bandiere di poppa degli yacht. Vedo Piero Alabarda – quel Piero Alabarda che ha costruito un impero reinventando il taglio delle giacche eleganti negli anni ’70 – che sta bevendo un tè al Bar du Port. E lui vede me.

«Ragazzi, adesso ci sediamo lì e glielo facciamo rizzare» propongo.

«Coglione – rispondono uno dopo l’altro – Coglione»

Ci piazziamo sugli sgabelli a una decina di metri da lui e ordiniamo una birra. Gli altri bevono e parlottano come persone normali. Io, con la schiena dritta, gli lancio occhiate di una persona che normale non vuole più essere. Lui, maglietta nera attillata e occhio vispo, corrisponde. È al tavolo con una coppia di vecchi noiosi. Sembra un signore, discretamente ricco, ma come tanti. Non lo è: si alza e viene nella nostra direzione. Sandro sta raccontando una barzelletta su un gorilla e un chierichetto.

«Piero», Alabarda mi allunga la mano.

Gigi mangia noccioline.

«Gastone», dico e allungo la mia.

Giulio muove lentamente la testa, su di me, e su di lui, con avidità.

«Tu fai il modello, vero?» chiede Alabarda.

«No, sto prendendo la terza laurea.»

Alabarda annuisce come un buon padre.

Giulio caccia una risata isterica.

«Siamo sempre alla ricerca di volti nuovi» fa Alabarda. «Ti va di lasciarmi i tuoi recapiti? Se l’idea della moda ti interessa, poi a settembre ti contatto».

Abbasso la testa e conto le arachidi risparmiate da Gigi nel piattino, per lasciar passare qualche secondo. «Non saprei, è una cosa a cui non ho proprio pensato.»

Entra nel bar, lui, si fa dare carta e penna – intanto gli altri mi guardano con i menti allungati, scuotendo la testa e ridendo, Giulio ha la sua tipica espressione «hai fatto una schifezza, e hai fatto bene”.

Alabarda segna il mio nome, cognome e numero, poi torna dagli amici in camicie di lino e dentiera che chissà che cosa avranno pensato di quel coetaneo arrapato. Il quale suddetto coetaneo evidentemente ha il pene che gli preme ancora contro la cerniera, perché nemmeno cinque minuti dopo torna da me e mi lascia un bigliettino in corsivo: “Piero, 335…”

Papà, sentito a telefono la sera, dice che è un’ottima opportunità, che allora ha senso finanziare le mie vacanze, perché si sa mai quello che capita, chi si incontra. È un argomento omofobo, assicura, che se uno è gay e ti propone qualcosa, allora per forza ti si vuole fare. Poco dopo, al ristorante, anche Sandro dice che non è detto che mi si voglia davvero fottere, che chissà che razza di perversioni c’ha, che il concetto di penetrazione l’avrà superato da un paio di decenni, che anche solo la vaselina cambia tutta la questione. Giulio ripete che lui l’ha sempre saputo che sembro tanto timido ed emotivo ma in realtà sono un freddo gelido figlio di puttana.

La mattina, in spiaggia, poche ore prima di partire, mi isolo sul retro dello stabilimento balneare, come una zoccoletta che chiama il bullo di turno e dico a Pierone che sì, l’idea di fare il modello può interessarmi, che sì, ci saremmo rivisti a settembre. Mentre torno verso lo sdraio mi richiama.

«Gastone, mi fa molto piacere tu mi abbia chiamato» scandisce inequivocabilmente – papà avrebbe poi detto che magari aveva solo una sensibilità particolare perché, in fondo in fondo, era un artista. Taccio un paio di secondi, mormoro suoni incomprensibili – lui ascolta – che piano piano assumono una qualche significato nebuloso e ambiguo, che cioè ha fatto piacere anche a me – è scortese non contraccambiare una manifestazione di stima – perché non avevo mai preso in considerazione l’Ipotesi della Moda – cerco di astrarre, di rendere il suo corpo decadente e arrapato un accidente fisico dello Spirito della Moda – e che quindi sì, speravo ci sarebbero state altre occasioni per vedere se c’ero davvero portato.

«A presto» conclude lui la mia tirata con due semplici, geniali, parole.

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