Il sì detto colpo dello fulmine è, passato il tempo delle mele (e dei limoni), evento raro assai, ahimè. Insieme alla paura per la verifica di matematica dovremmo scacciare dalla nostra testa anche l’idea di riconoscere, nella calca di un locale o di una metropolitana, la persona in grado di causarci un’improvvisa aritmia ventricolare. Il più delle volte l’amore cresce inavvertitamente. Come le unghie, i capelli, o un brufolo. E, quando meno ce lo saremmo aspettati, eccolo lì, sulla punta del nostro naso. Ma, a differenza di un brufolo, dal suo insorgere non è assente una piccola ma determinante componente decisionale. “E va bene”, ci diciamo, “sono pronto”. Non si tratta di un momento ben identificabile, ma di un processo sfumato, del quale è impossibile definire l’inizio e la fine – proprio come accade per la depressione. Dunque, quando dichiarare solennemente (e, mi sia consentito, quasi anacronisticamente) "ti amo"?

Queste due parole, infatti, implicano una lunga serie di effetti collaterali. Qualche esempio:

Il primo che le pronuncia offre fianco – nonché orifizio – all’amato/a. E chi può dire che ne farà del nostro “fianco” quest’altro? Se, accertatosi della conquista, gli venissimo già a noia? Se prendesse a giuocar come lo gatto con lo topo? Se il suo masochismo perdesse così ogni speranza e ogni interesse?

Se l’altro a questo punto ritratta, se scappa, nella sua fuga a ritroso potrà sputtanarci con amici e conoscenti. “Hai presente Tizia”, si potrà far bello allo bar, “è innamorata cotta di me, poverina, io le voglio tanto bene, so che mi farebbe felice, ma a me non ispira neanche una sega”.

Il pericolo più concreto di ogni sentimento è la saturazione. Arrivato al suo culmine, esaurite tutte le possibili esperienze, spesso comincia inesorabilmente a declinare. Questo fatto lo avvertiamo istintivamente e cerchiamo di rinviare il più possibile il cruciale momento della dichiarazione, per gustarci la fase di infinita potenzialità che la precede. Tuttavia è tanta la nostra voglia di darci, e ancor più di prendere, che dopo giorni, mesi o anni di solitudine prima o poi cediamo. Ci diciamo “su, perché trattenermi ancora, ho voglia di dirglielo, di urlarlo al mondo. Si vive per questo, no?”

Prima di arrivare a tale resa zuccherina, tuttavia, elaboriamo ogni sorta di allusioni, perifrasi, giuochi di parole, non detti, quasi-sinonimi (la messaggistica istantanea è nostra alleata), per tastare il terreno, per non provar le vertigini di una troppo ripida salita, per abituare gradualmente noi stessi e l’amato (?) alla rivoluzione che seguirà quelle due parole. L’escalation di impacciata stucchevolezza è inesorabile, nonché, ahinoi, quasi sempre imbarazzante.

Che bello baciarti!

Non immaginavo fossi così :)

Sai che mi piaci?

Mi piaci tantissimo!

Oggi ti ho pensato…

Ieri notte ti ho sognato…

Sai che un po’ mi manchi?

Sei un cretino, ma alla fine ti voglio bene.

Mi manchi tantissimo!

Quanto bene ti voglio?!

Oggi ho capito qualcosa…

E chi l’avrebbe mai detto?!

È da un po’ che gli amici mi dicono che sono strano…

Mi fai morire!

Mi fai impazzire!

Mi fai sciogliere!

Mi fai esplodere! (e la lista delle atrocità potrebbe a lungo proseguire, ndr)

Ma da dove salti fuori, tu?

Ma sei vero, tu?!

Sei…TU!

Ti adoro (il che è assurdo, perché “adorare” dovrebbe essere più che “amare”, ma non in questo caso, ndr)

Ti voglio!

Ti…tutto!

<3

<3 <3

<3 <3 <3 (i cuoricini potrebbero continuare a espandersi indefinitamente come una metastasi, ndr)

Bello che sei!

Sei bellissimo!

Sei meraviglioso!

Sei speciale!

Sei perfetto!

Sei…tutto!!!

Anche tu pensi quello che penso io?

Anche tu senti quello che sento io?

Erano anni che non stavo così.

Non l’avevo mai detto a nessuno!

Non l’avevo mai fatto per nessuno!

Ho un po’ paura, ma sono contento di averla.

Sono di buon umore, grazie a te!

Oggi mi sono svegliato…ed ero felice!

Mi riempi.

Non pensavo fosse possibile provare di nuovo certe cose.

Ma come facevo prima di conoscerti?

Non riesco più a fare a meno di te.

Mi fai felice!

La conclusione, mie adorate, vi è nota. Insomma, il buon vecchio Hegel definirebbe tale processo “la fatica del concetto”, gli incarti dei Baci Perugina “la paura di soffrire”. Noi, forse, “la noia dell’ufficio”.