Il punto non è cercarle. Aspettarle magari, o pretenderle con la smania di un affamato. Le risposte, quelle che danno un senso alle storie, io non le ho trovate. In compenso però ho scoperto due cose: la felicità, che puoi avere nonostante un genitore ti abbandoni a otto anni, e una cosa meravigliosa che la gente chiama “l’odore della mamma”. So bene che non esiste, tutti dicono di conoscerlo ma credo sia solo ciò che ognuno vuole immaginare. Io l’ho immaginato per tanto tempo e a 24 anni l’ho trovato: quello della mamma di Nicola, il mio compagno. Della mia non ricordo alcuna essenza in particolare: sarà che usava talmente tanti profumi da neutralizzare quelli del suo corpo. Sarà che non esisteva in lei alcun sentimento materno comunicabile chimicamente.

Ecco perché prima di scoprire con l’olfatto il peso delle relazioni mi sono persa per anni tra i ricordi che ho di lei: quelli dei miei fratelli, della gente che la conosceva e poche immagini in cui siamo insieme. Come questa: avevo otto anni, ci eravamo trasferiti da poco a Milano, e mamma mi ha chiamata in bagno. Ha chiuso la porta a chiave, siamo rimaste sole. E mi ha detto: «Io domani me ne vado, vuoi venire con me?». Io: «Ma perché? Rimani qui, io non voglio». Si è messa a urlare minacciando di non cercarmi mai più.

E l’ha fatto. Il giorno dopo, mentre la città si risvegliava sotto la nebbia, lei ha chiuso la valigia e poi la porta. Accadono così certe cose. Parlarne, oggi, non mi fa stare male. Ho gli occhi umidi, ma sono serena. Mi fa tenerezza quella bambina rifiutata. “Però, quanto deve essere stata dura”, penso. Dura? Dipende, starei meglio se dimenticassi certi ricordi. Eccoli.

Sono la più piccola di otto figli. Tre maschi e cinque femmine. Sono cresciuta in un paesino sulla Sila: mio padre lavorava come operaio a Milano e tornava a casa ogni due settimane pieno di cioccolatini e vestiti. Mia madre badava a un piccolo terreno ma soprattutto curava noi figli. E, per entrambi, usava gli stessi strumenti: freddezza, forza e fatica. Una per tenersi alla larga da ogni gesto d’amore, l’altra per picchiare i figli: così forte che, quando scrivevamo male l’alfabeto, i quaderni si macchiavano di sangue.

E poi c’era la fatica, sì. Sopravvivere con noi le pesava quanto lavorare la terra: ma lo sforzo fisico poteva cancellarlo con profumi e vestiti. Finito il lavoro, prima di rientrare a casa, passava molto tempo a imbellettarsi. Era bellissima e io ne ero innamorata. Stavo ore davanti allo specchio, provando le sue collanine, le gonne e le colonie. Non sapevo che per quelle cose spendeva i soldi che doveva usare per farci mangiare o per comprare le scarpe. E non immaginavo l’odio disciolto in quella fatica nauseabonda.

Per noi solo divieti: mai un giocattolo, mai il permesso per uscire con altri bambini. Una volta mia sorella si è allontanata per due ore di nascosto con un’amica. Quando l’ha scoperta, ha spifferato tutto a papà: le sue punizioni, dietro incitazione di mamma («dagliele a quella troia!»), hanno fatto piangere e urlare mia sorella per un weekend. Credo che i reumatismi diagnosticati oggi alle sue gambe e ai suoi reni siano i ricordi che hanno le ossa di quelle botte. Sì, noi fratelli siamo tutti impregnati di brutti ricordi, in questa storia.

E forse io sono quella che ha subito meno conseguenze. Sarà perché ero la più piccola o perché la adoravo: pur di stare sempre con lei non sono nemmeno andata all’asilo. Quando tutta la famiglia si è trasferita a Milano io avevo sei anni e mi sono fatta promettere che non sarei andata alle elementari per restarle vicino. E invece a scuola sono andata, anche il giorno in cui lei ci ha lasciato per andare a vivere con un collega dell’azienda dove lavorava. Ci sono andata anche quando è fuggita via di casa per la seconda volta: mio padre l’aveva convinta a tornare ma è scappata dopo una settimana, urlando «Siete tutti pazzi!».

Sono sempre andata a scuola finché un giorno ho detto no, studiare da ragioniera non mi piaceva e potevo essere più utile ai figli di mia sorella che stava divorziando. Ho mollato e seguito il mio obiettivo, avere soldi miei, essere felice. Poi, a 18 anni, ci ho ripensato e ho trovato il coraggio di sedermi tra i ragazzi di 14, in un istituto di grafica pubblicitaria: volevo fare qualcosa di creativo.

C’è sempre tempo per un riscatto. Ieri con la classe (che mi ha preso in giro per un po’) e oggi con la vita: ho 35 anni e faccio la grafica nell’azienda che da piccola vedevo dal mio balcone. Sì, la serenità può abitare a 100 passi da casa tua. O anche dentro: convivo felice da tre anni con Nicola, il ragazzo che amo da 10 anni. Un gran punto fermo, forse anche troppo. Perché ora ci dovrebbe essere un’evoluzione, il figlio che lui desidera. Ma non ci riesco. Il capitolo “maternità” nella mia vita è simile a un muro di cocci di bottiglia. Ovvero di paure e ricordi, roba che fa male e taglia.

E se l’incapacità di essere madri fosse una questione genetica? Ecco il titolo del capitolo che si è scritto nella mia testa. Ci sono pagine piene di nipotini a cui ho fatto da baby-sitter (e che la notte sognavo di uccidere); di sorelle partite per l’America e mai più tornate; di altre che odiano i loro bambini; di un’altra che mi ha fatto da madre e poi si è dileguata (dopo il quarto “no” per un po’ di shopping insieme ho rinunciato anche a lei). Ma anche di fratelli che vedo una volta all’anno. Alcuni di loro sono depressi e alcolizzati, non si sono mai ripresi dall’abbandono.

In questo capitolo c’è anche mio padre al quale ho dato del “lei” fino all’età di 23 anni (forse perché non aveva niente da dirmi) e che, oltre a me, ha accudito la nonna materna trasferita a casa nostra. Povera donna: in punto di morte è stata prelevata dalla figlia rinnegata. Voleva che morisse in casa sua, e forse voleva ereditare le sue proprietà in Calabria. Quella è stata la prima volta che mamma si è rifatta viva con me.

Dopo un po’ mi ha cercata di nuovo: avevo 21 anni e mi ha chiesto di incontrarci in un bar. Mi ha detto che il suo compagno era morto e che aveva conosciuto una ragazza a cui voleva molto bene e che considerava come una figlia. Poi mi ha chiesto un consiglio sul colore del suo nuovo divano. Nulla di più, niente su come andavo a scuola, niente su come stessi. Quel pomeriggio ho pensato che tutte le domande che avrei voluto farle non avevano più senso. Avevo davanti la donna che mi aveva abbandonata e mi bastava. Questa era la risposta. Non mi interessano parole grandi come: amore, odio, rancore.

A chi mi chiede di lei dico che è morta, a pochi intimi dico qualcosa di più vago. Ho un’immagine fissa in mente: la mia amica che ripeteva a sua madre “ti voglio bene”. Si abbracciavano e si baciavano. Vederle farebbe un effetto strano a tutti, anche a chi non ha una storia come la mia. Io le guardavo con gioia e pensavo: che bello.

Che cosa serve per voltare pagina in questo capitolo? Forse niente. O forse la certezza di non somigliarle e un nome da dare a quella sua miscela di profumi. Cos’era? Pazzia, incapacità, sfortuna? A volte ho pensato alle sceneggiate davanti ai parenti con lei che gridava perché non avrebbe voluto tutti quei figli. Altre volte mi sono tornate in mente i racconti che sentivo in Calabria: una donna spiritosa, allegra, affettuosa. Ne esco stordita, mi chiedo chi sia questa donna. Poi però abbraccio la mia futura suocera e sento che lei, davvero, sa di mamma. E ciò mi rassicura. Anche se cresci senza l’amore materno, senza quella “prima cosa bella”, puoi costruire lo stesso una tua felicità.