Una donna su tre nel mondo è stata vittima di abuso, è stata maltrattata o è stata costretta ad avere rapporti sessuali. L11 ottobre è la Giornata Mondiale delle bambine e delle ragazze, proclamata dall’Onu e supportata soprattutto da Terre des Hommes (che invita a postare su Facebook o Twitter o Instagram qualcosa di colore arancione: che sia un oggetto, uno slogan o un selfie e accompagnarlo con gli hashtag #OrangeRevolution #indifesa). Mai come oggi è importante raccontare una storia di diritti negati, femminilità deturpata e ignoranza.

Come questa: Aïssa è africana, ha 15 anni e vive in un villaggio in Burkina Faso con sua madre, le sue due sorelle e sua figlia. Ha raccontato la sua triste storia di un abuso che le ha cambiato la vita a Marieclaire.com. E noi la condividiamo con voi.

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Avevo 14 anni quando sono rimasta incinta.

Prima di ciò, volevo solo andare a scuola. Ma la mia educazione ha preso una strada diversa.

Al primo esame di elementari, il mio insegnante disse che avrebbe dato il voto solo a me (era già un segno negativo): ero stata bocciata. Da quando ebbe il mio numero, continuò a chiamarmi e a chiedermi di andare a scuola e di vederlo. Ma ogni volta, dissi di no, che non sarei andata.

L’educazione nella mia nazione è rara, specialmente per le donne. Le famiglie spesso sono troppo povere per permettersi di mandare i propri figli a scuola, e io non ho voluto mettere a rischio la mia fortuna. Così, il giorno in cui il mio insegnate mi minacciò che se non fossi andata avrebbe sabotato i miei studi, anche se terrorizzata, andai ad incontrarlo a scuola. Lì mi violentò.

Non lo dissi a nessuno. Anche se ero solo una bambina di 14 anni, sapevo che nessuno mi avrebbe creduta. Era un uomo ed era un insegnante, aveva tutte le autorità dalla sua parte. E io ero solo una giovane ragazzina con una triste storia da raccontare.

Dopo un po’ di tempo scoprii che ero incinta. I miei genitori notarono presto un cambiamento nel mio appetito, nel mio corpo e io alla fine ho ceduto raccontando loro il motivo di questi cambiamenti.

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L’ultima volta che vidi il mio insegnante fu fuori dalla stazione di polizia locale, quando i miei genitori decisero di denunciare la vicenda. Lui ebbe la sospensione di un anno dall'insegnamento. Ecco tutto: mentre io ero destinata a vivere con le conseguenze da lui create, per il resto della mia vita.

Le nostre due famiglie si misero d’accordo che era suo dovere prendersi cura di me, fino almeno al giorno del parto. Anche perché la mia famiglia non aveva i soldi per pagare tutte le cure più la scuola. Così, purtroppo, non avevo altra scelta: mi dovetti trasferire nella casa del mio stupratore per cinque mesi. Lui pagava le mie spese scolastiche e sua mamma mi accompagnava agli appuntamenti dal dottore. Purtroppo non mi davano mai soldi per niente altro, neanche un centesimo. Nemmeno per comprare dei vestiti nuovi, come la maternità richiedeva.

Durante l’intera gravidanza, il mio insegnante non venne mai a trovarmi, io vivevo con sua madre. Da una parte questa cosa mi faceva impazzire, perché volevo che subisse la mia gravidanza e vedesse cosa aveva fatto a me e alla mia vita. Poi, in realtà, non lo volevo neanche più vedere perché nel mio cuore lo odiavo.

Quando mia figlia Fati nacque, tornai a vivere dai miei genitori. Non mi guardavano più nello stesso modo: mio padre divenne stranamente distaccato. Prima che fossi stuprata, mio padre si vantava del fatto che io avessi tutto ciò di cui avevo bisogno: soldi per la scuola, vestiti nuovi, e così via. Ma da quando nacque la bambina lui smise di pagarmi gli studi e di darmi attenzioni. I primi giorni non mi voleva neanche vedere.

A volte ho persino pensato che mio padre mi incolpasse di essere stata violentata.

Ora vivo con mia madre, le mie due sorelle più piccole e mia figlia. Senza il supporto finanziario di mio padre, ho smesso di andare a scuola, ed è stato il più grande errore per il futuro che mi sento di aver fatto. Era l'unica cosa che desideravo fare. Davvero.

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Come passo le mie giornate? Mi sveglio la mattina, faccio il bagno a Fathi e poi preparo i pancakes che devo vendere. Non faccio molti soldi, giusto il minimo che ci serve per sopravvivere. Quando finisco, aiuto mia madre a coltivare: lei ha un piccolo orticello, dove coltiva le verdure che spesso vende. Mia figlia sta con me tutto il giorno.

Non sono una madre felice. La maternità è stata davvero una fonte di sofferenza per me. Non amo neanche pensarci, ormai, perché mi ricorda di tutti i treni bella vita che ho preso. E non per mia scelta.

Ora, vedere i miei amici andare a scuola, mi devasta: perché penso a tutto ciò che loro hanno e io non avrò mai più. Stanno ancora studiando, prendono ancora bei voti, e stanno ancora tentando di costruire un futuro per loro stessi.

Volevo essere madre un giorno; ma non ora, e non in questo modo.

PS. La storia di Aissa è stata raccolta, insieme ad altre, con l'hashtag #childmothers ovvero tra le testimonianze di un'iniziativa globale tra Plan International e il Fondo delle Nazioni Unite per la Popolazione (UNFPA), per supportare le giovani madri e prevenire la maternità infantile nei paesi più poveri del mondo.