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Nel periodo in cui Fidel Castro rinunciava all’incarico di presidente e San Remo lo vinceva Giò Di Tonno andai a New York. In aereo avevo sentito uno spilungone barese parlare al telefono di “grande sesso nella Grande Mela”. Atterrato al JFK, feci in modo di ritrovarmi con lui in coda per il taxi.

“Sali con me” disse il pollo.

“Ti pare? – spalancai gli occhi – Non disturbarti.”

“Tanto paga l’azienda”.

Seppi che lavorava per un marchio bruttissimo, El Sacro Diablo (quella che produceva le tshirt con le ali d’angelo stampate sulle scapole) e che aveva un nome bellissimo: Alcide Lattaro. Alcide doveva lanciare il brand negli USA e sponsorizzare la prima di un film di Enzo Martinelli dedicato a Primo Carnera, The walking mountain, che si sarebbe tenuta nel Madison Square Garden.

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“I valletti che accompagneranno i personaggi sul palco vestiranno El Sacro Diablo. – alza la voce, sperando che il tassista obeso chicano sia poliglotta – Mi manca un modello. Vieni tu?”

Le mie colleghe, verso le quali avevo indirizzato tutto l’entusiasmo per quella proposta, si rivelarono orribili. Una cinese rachitica, una bionda la pelle butterata sotto a due dita di fard, un’altra bionda con le orecchie insolitamente lunghe. I vestiti erano brutti quanto le modelle e, se non avessi temuto di pregiudicare una neonata amicizia capace di propiziare, prima o poi, piaceri sessuali, avrei chiarito ad Alcide che bisognava proprio essere una manica di tamarri per sponsorizzare una serata di gala alla quale, a detta sua, avrebbe partecipato il meglio dell’italoamericanità, da De Niro a Joe Pesci, con tshirt stampate e jeans strappati.

Le cinture, con fibbie, intersezioni e stringhe complesse come un intestino crasso, si rivelarono provvidenziali. Io, che avevo sempre portato cinture lineari, con un’unica fibbia e i buchi in sequenza, stavo studiando il problema con la testa abbassata, nei camerini.

“Posso aiutarti?”

Era una truccatrice, avrà avuto vent’anni.

“Sì, grazie.”

Mentre mi allacciava la cintura continuava a sorridere con la bocca socchiusa. Non c’era alcun bisogno di tenere il suo bacino così vicino al mio. Infilati tutti i passanti, e le fibbie, diede un buffetto sulla sua opera, come per dire che era finita, ed era buona. Ero già visibilmente in erezione.

Il sorriso le si allarga. “Vuoi venire con me?”

“Ok.”

Mi prende per mano, passiamo davanti agli specchi dei parrucchieri, vedo la sua figura riflessa, è sovrappeso. Sbuchiamo di fronte al palcoscenico, in platea la gente sta già prendendo posto. Di tutta la grande itolamericanità che doveva essere presente vedo solo il ciuffo rosso di Lapo Elkann – oltre al riesumato Poly di Rocky. Apriamo la porta dei bagni ma una nera integerrima presiede un banchetto con una scatola di cartone per le mance, e ci inibisce. Torniamo indietro e, a lato del palco, vediamo una porta. Ci ritroviamo sotto il palcoscenico del Madison Square Garden. Ci baciamo. Lei si abbassa, vengo.

Poco dopo mi presentano la persona che avrei dovuto accompagnare sul palco. “Giovanna Carnera”, mi allunga la mano una settantenne distinta.

“Che ci fa qui, signora?”

“Per via di mio padre.”

“Chi è?”

“Primo Carnera”.

“Ah.”

“Sa , il film è dedicato a lui”, si porta i capelli dietro le orecchie, ha grandi orecchini di ametista.

“Certo”, arrossisco, “ovvio”, e, abbassando la testa, mi accorgo di avere una macchia bianca nel centro della maglietta blu elettrico di El Sacro Diablo.

“Buona sera, maestro” sento dire alla mia nuova amica. Era Martinelli.

I due parlottano mentre mi inumidisco l’indice e lo passo sul tessuto sporco, senza successo.

“Sì, ho cercato di intrecciare una vicenda personale con la grande Storia” dice Martinelli.

“Quando papà, distrutto, si butta sul letto, lì è stato il momento in cui mi sono commossa” dice la Carnera.

“Non vedo l’ora di vederlo” dico io.

Il regista sembra accorgersi della mia esistenza. Il cartellino che mi pende dal collo reca l’inequivocabile scritta “MODEL”.

“Bravo” risponde.

Il parrucchiere prima mi ha tirato indietro tutti i capelli, col gel.

“Sa, io scrivo.”

“Bene. – risponde guardando proprio nella direzione nella quale ha preso a camminare – Bene.” forse ripete generosamente.

“Sai che le avevo detto, alla truccatrice? – mi spiega Alcide alla fine della proiezione. – Che in Italia sei un modello famosissimo.”

“Oh.”

“E stasera una roba a tre me la devi.”

Quindi, dopo la cena di gala, ci ritroviamo nella camera di Alcide con Genny – così si chiamava la ventunenne, avrei scoperto, di padre napoletano, grande chirurgo ortopedico che avrebbe fatto sparire la mia spondilolistesi congenita, assicurava lei contro qualsiasi logica scientifica, e di madre ebrea, perché l’America unisce.

“E ora che si fa?” domando ad Alcide, che si è messo a scrivere al computer.

“Sta sbronza proprio. – alza le spalle tenendo entrambe le mani sulla tastiera – Tu vai sul letto e leccala, che io finisco qui e arrivo.”

“Alcide, guarda, – mi liscio la camicia che finalmente avevo sostituito alla maglietta alata – sei stato davvero tanto gentile con me, ma, non so, secondo me non ci starà mai, prima m’ha detto di essersi innamorata di me.”

“Tu fidati.”

E così faccio.

Alcide continua a scrivere.”

Beh?”, alzo la testa verso di lui smettendo di baciarla per un attimo.

“Che c’è? – guarda lo schermo – Va avanti.”

Quindi io vado avanti e quello ancora non arriva. Lei sospira a occhi chiusi.

Mi dimeno ancora per un po’.

Poi vedo Alcide nudo, pallido, peloso e con la pancetta, che allunga i suoi attributi verso la bocca di lei.

E lei? “No”, dice una volta, “no”, dice una seconda volta, poi comincia a lavorare. Io cerco di concludere in fretta e mi faccio da parte. Alcide Lattaro invece è solo all’inizio.

“Guarda che bocca che c’ha questa qui”, si volta verso di me. Lei gridacchia

“Certo che ‘ste cose ti capitano solo a New York”, alza la mano per farsi dare il cinque , e io, dalla sedia sulla quale contemplavo lo spettacolo in calzini e mutande, mi sporgo in avanti e lo accontento.

“Troppo, troppo figa sta città!” urla quando i nostri palmi si toccano. Lei era a a quattro zampe e mi guardava.

Alcide Lattaro conclude una, due, tre, quattro volte. Genny porta i segni di quel tripudio di generosità, ovunque.

“Perché mi hai condiviso?” si sarebbe informata lei mentre la accompagnavo a prendere il taxi. Io non seppi cosa risponderle.

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