La definitiva resa dei conti con me stesso e con la mia ragazza stava giusto per arrivare.

Quando entravano gli stuoli di saudite in chador, coi tacchi dodici in vernice fucsia che spuntavano da sotto le lunghe vesti nere, Gillie, per stabilire un contatto empatico con quelle potenziali miniere di quattrini, mi indicava col mento. Io me ne stavo in un angolo, sempre più spesso per cazzeggiare col giochino del golf piuttosto che per mandare affettuosi messaggi a Emma, e mi imbarazzavo così tanto che assumevo automaticamente , come da contratto, la faccia da ebete. Gillie sorrideva alle incappucciate e scuoteva la testa. Conclusa la trattativa diceva: “Lasciate qui le buste, dopo ve le faccio portare in albergo da lui. – ancora mento e sorriso indirizzati verso di me – Così si fa un bel giretto all’aria aperta.” Sia detto tra noi, almeno quell’agosto, i trenta giorni durante i quali decine di kamikaze si fecero esplodere le viscere tra Bagdad e Mossul, gli alberghi degli amici arabi che svernavano a Londra per dedicarsi allo shopping compulsivo non erano un classico esempio di eleganza compassata – al Carlton Towers, l’albergo di lusso davanti al nostro negozio, un tizio suonava l’arpa nella hall h24 e di fronte all’ingresso era perennemente parcheggiata una fuori serie a forma di navicella spaziale targata Kuwait 1000.

Emma se ne stava là giù in Italia, mi chiamava a orari concordati, una volta al giorno, per non interferire con la mia intensa attività lavorativa. Mi era addirittura consentito fare il piacione con le clienti, tanto che uscii con una giovane saudita, a Londra perché il padre doveva vendere certi aerei al governo britannico. Fu insultata per le vie di Chelsea dai suoi connazionali, che non le perdonarono di andare a braccetto con un tizio dagli occhi azzurri e dai capelli chiari. Spinta dallo stesso angelico tizio a bere vodka-tonic in violazione delle più basilari leggi coraniche, cominciò a tremare e straparlare e fuggì in taxi quando ormai l’avevo trascinata sulla soglia del mio minuscolo e trappolesco monolocale.

La libertà e la pietà di cui godevo in negozio sembravano affascinare soprattutto Cecilia, la commessa. Cecilia era umbra, aveva trentaquattro anni e, dopo un dottorato in fisica teorica, aveva rinunciato ai sogni accademici perché in Italia non c’erano prospettive e lei doveva mantenersi in tutto perché di famiglia era molto povera, mi diceva. Aveva quindi tentato la fortuna in una città dalle grandi opportunità, mi diceva. Mi parlava anche di come la “Teoria delle Stringhe” potesse ricomporre la secolare dicotomia tra Relatività e Fisica Quantistica – perché la prima immaginava un universo regolare, liscio come le camicie piegate da mia mamma, mentre la seconda ipotizzava che la materia fosse costituita da un caos brulicante di energie e particelle. Mi spiegava come, secondo quest’ultima visione, negli strati infinitesimali dell’essere ci fossero una dozzina di dimensioni accartocciate tra loro, di come però non fosse ben chiaro perché la gravità risultasse tanto più debole delle altre forze in gioco nell’universo. “È una povera ritardata mentale. – sussurrava esotericamente Gillie a Hiroko, quando Cecilia era distante – Non è colpa sua, dovrebbe fare la donna sandwich.” E Cecilia in qualche modo intuiva questa condanna aprioristica, metafisica, perché si muoveva a scatti e batteva raramente le ciglia. Sulla suola di ogni calzatura era applicata una minuscola etichetta con una sigla, che doveva servire per rintracciare altre taglie dello stesso modello nel caos quantistico del magazzino. Gillie, magari alle prese con uno di quei ciccioni russi che tiravano fuori rotoli di sterline direttamente dalle tasche dei jeans sformati, urlava “Sesillia – lo pronunciava così – Hai sentito? Serve la taglia nove”, e lei scattava giù dalle scale come le bruciasse il culo, si sentivano i suoi passi decrescere velocemente verso il baratro della materia, e ritornava col fiatone, guadagnandone sempre, comunque, uno sbuffo irritato.

“Hai presente Zanotti? – mi ha detto un lunedì mattina in cui Gillie e Hiroko erano impegnate a stabilire i turni della settimana – Per lui ha un odio personale, smodato. Hai visto che sbava quando ne parla?”

“Sì, forse, a volte.”

“Questa è matta.”

“Un pochino.”

“L’unico modo che hai di sopravvivere psicologicamente con lei è annullare la tua personalità, come ha fatto Hiroko.”

“Tanto io devo star qui un altro mese e basta.”

“Mi ha confessato che i primi tempi piangeva tutte le sere ma poi si è decisa a non mettere più in dubbio quello che dice Gillie, a fare come se fosse un suo prolungamento anatomico.”

“Forse i giapponesi ci sono portati.”

“Schhh! – scattò due metri in là – Se sente che parliamo italiano si infuria.”

E probabilmente Sesillia aveva trovato in me un’ancora di salvezza, un conforto umano, isolata com’era nella metropoli dalle grandi opportunità, senza amici, senza parenti. Voleva che uscissimo a prendere un aperitivo, una volta o l’altra, ma io riuscii a rimandare fino alla mia partenza, perché avrei barattato tutte le sue competenze quantistiche e tutti i suoi aneddoti sul gatto di Schrödinger con un bel culo. Per di più, quando Gillie si accaniva contro di lei, io provavo quello che avrei provato vedendo il gatto di Schrödinger spappolato dentro alla scatola, cioè una mezza dozzina di micro sensazioni accartocciate nelle profondità dello stomaco: compassione-schifo-piaceresadico-empatia-orrore-gioiadelsopravvissuto.

Il venerdì sera – io, in quanto amico del figlio del proprietario, riuscivo ad avere sempre il sabato libero – me ne uscivo dal negozio con le mie 250 sterline settimanali imbustate, che avrei speso quello stesso weekend, e mi dicevo che in fondo, della miseria di Sesillia, non me ne fregava un cazzo, e me ne andavo per bar in cerca di compagnia.

Ma fu nel residence dove alloggiavo, il Chelsea Cloisters, che rimediai la mia frequentazione per l’estate londinese, frequentazione che non mi avrebbe più permesso di mentire a me stesso, né a Emma. Una lettone che lavorava alla Deutsche Bank. L’avevo incrociata nei corridoi di quel costosissimo formicaio di loculi – se friggevo una cotoletta l’olio schizzava sul letto – e mi aveva eccitato per la combinazione di espressione antipatica e gonna corta. Scoprii, in breve tempo, che quella che pareva antipatia era purtroppo solo ottusità. Quando le chiedevo di indossare qualcosa di sexy per me, nella sua camera che in più della mia aveva cinque metri quadrati e un vaso di fiori, si infilava stivali alti e, nell’avvicinarsi al letto vestita solo con quelli, indicava il tacco, sollevando il piede, per mostrarmi che non barava, per testimoniare contro ogni ragionevole dubbio di indossare accessori adatti a stimolare il feticismo maschile. Non poteva che lavorare alla Deutsche Bank. Ma fu utile per ripassare un po’ il russo, anche se mi riprendeva perché, oltre a un’altra miriade di errori, mi scordavo di pronunciare “a” la “o” non accentata, come vuole l’accento moscovita, e quindi ne risultava una parlata grezza, siberiana, diceva – il complesso della baltica parvenu. Mi regalò, il giorno della mia partenza, addirittura una raccolta di racconti di Čechov, con una bella copertina decorata, che accettai assicurandole che l’avrei richiamata appena varcato il confine. Non la contattai mai più. Ma fu utile soprattutto perché, nonostante non provassi il minimo affetto nei suoi confronti, mi bastò la sua burrosa presenza – aveva le tette molto grandi – per non farmi sentire l’assenza di Emma, a cui ormai scrivevo giusto un paio di messaggi al giorno, e quindi cominciai a valutare la possibilità di un’esistenza affrancata dal suo supporto ansiolitico e dal prezzo in termini di sensi di colpa che dovevo pagare per quell’azione terapeutica da me così ingiustamente ripagata. Da lì a qualche mese avrei trovato la forza per lasciarla.