Quando, nel 1978, Gilbert Baker scelse una bandiera iridescente come simbolo del Pride essa era il migliore grafico a barre in grado di rappresentare le componenti dell'allora nascente movimento LGBT: tutte dello stesso ordine di grandezza, ma diversamente colorate. Quell'istogramma, al contrario di quelli che usiamo tanto nei PowerPoint, non era pensato per presentare differenze di valori, ma per sottolineare identità. Fu come se Baker avesse scattato una fotografia al cielo dopo una lunga tempesta, usando come pellicola una bandiera bianca che non simboleggiava una dichiarazione di resa quanto, invece, la consapevolezza di brandire tra le mani una storia tutta da riscrivere. Sfuggendo dall'ancoraggio a qualsivoglia foglio di calcolo, quell'artista era riuscito nella missione impossibile di trarre un marchio da due fenomeni naturali: l'arcobaleno e la varietà degli orientamenti sessuali. Fenomeni che, nonostante tutto, per quante tempeste si potessero prospettare sull'orizzonte del movimento, prima o poi, per fortuna, si ripresentano sempre. Excel vs. natura 0-1.

Col passare degli anni e con la lenta e faticosa accettazione delle rivendicazioni del Pride, però, la cultura aziendalista sembra aver guadagnato un po' di terreno su quel simbolo, la cui universalità e semplicità hanno sempre più ceduto spazio a vasti cataloghi, cartacei e online, di particolarismi. Dapprima furono gli striscioni brandizzati, rubati a un corteo come si ruba un product placement a un film d'autore, di cui i pionieri furono i cosmetici Mac nel 1984. Oggi non mancano le sezioni di Amazon che troppo facilmente fanno confusione tra Prime e Pride.

Naturalmente c'era da aspettarsi che la fortuna commerciale dei gadget arcobaleno non fosse vista dalle comunità LGTBQIA+ sempre e solo come una misura degli avanzamenti, in campo mainstream, di una causa nata e cresciuta dietro le barricate di una minoranza.

Anzi, nei casi più critici, la messa in vendita di quei prodotti ha finito per essere percepita dagli attivisti come la messa a reddito di una lotta sociale: la loro.

Il vero nemico degli alleati corporate – anche di quelli armati delle migliori intenzioni e dei migliori dipartimenti creativi – è la semplificazione cui tende, inevitabilmente, la maggior parte dei messaggi allegati ai prodotti Pride. Aggiungere cinque coloranti in più agli ingredienti di un pacchetto di patatine potrebbe dare l'impressione di distogliere l'attenzione dai veri problemi degli attivisti, riducendole le loro questioni ancora aperte e più cocenti (discriminazioni sul lavoro, difficoltà a trovare alloggi, essere ispirazione e/o target di campagne di marketing) a un ovvio testimoniare, da parte delle aziende, l'unica cosa testimoniabile in modo umanamente e aziendalmente sostenibile: Sono d'accordo con quello che dici ma darei parte dei ricavi di un mese all'anno perché tu possa continuare a dirlo.

Grandi aziende e Pride non hanno mai giocato ad armi pari. È più facile che un attivista sia vittima del pregiudizio che un'azienda lo sia dell'Orgoglio. Eppure i sospetti che la diffusione di questi prodotti – che vanno dalle repliche delle Reebok da ballroom alla capsule collection di Versace feat. Lady Gaga – sia un bene relativo o un male assoluto sono verificabili solo fino a un certo punto. È un gatto che si morde le nove code: da una parte, non sempre è così immediato cogliere con le mani nel packaging un CEO opportunista e, dall'altra, è pur vero che le vie dell'awareness sono infinite. C'è chi intravede e valorizza, ad esempio, la potenza comunicativa dell'inatteso che si fa strada nel territorio della consuetudine. O, più semplicemente, chi apprezza le aziende che rispettano almeno una regola base: quella di non usare mai un arcobaleno al posto di un'idea.

Come le volte in cui i colori del Pride fanno capolino, come un capitello fuori format, tra le serissime colonne doriche di certi templi dell'abbigliamento maschile: si vedano i fazzoletti da taschino Brooks. L'iridescenza che si potrebbe dare per scontata in una collezione di Happy Socks, è tanto più interessante quando appare in un paio di tenebrose Dr. Martens. Saranno un ottimo souvenir di questi anni di grandi cambiamenti – soprattutto se continueranno a crescere di valore – le azioni del fondo LGBTQ100 , immesse sul mercato dalla LGBTQ Loyalty Holdings, che aggrega società alleate, profittevoli quanto woke. Per gli amanti delle emozioni più forti c'è la criptovaluta Dick, attualmente in ribasso, che ha come simbolo un delfino rosa.

Non sempre, altrove, tutto fila liscio. Accade, ad esempio, che prodotti che vantano tradizionalmente una livrea arcobaleno, arrivato giugno, si tingano di bianco e nero, come fanno i confetti Skittles, sostenendo, almeno a detta del loro incarto, che "solo un arcobaleno conta, durante il Pride"; col risultato discutibile di condividere la palette, seppure involontariamente, con la scellerata bandiera dell'orgoglio etero, che continuiamo a vedere in vendita. C'è poi il caso della campagna 2021 di Ikea Giappone. Già non era originalissima la borsa STORSTOMMA edizione Pride (al limite è più schietto un perizoma ricavato dalla borsa FRAKTA. Gli sfondi virtuali per Zoom lanciati in Oriente sembrano la versione su scala interior design delle lenti per Snapchat con i trucchi colorati, dedicati a chi potrebbe ma non vuole sporcarsi la faccia con del vero make-up . Sono, in altre parole, l'autocertificazione di non detenere in casa alcuna bandiera del Pride. O di non aver voluto neppure fare lo sforzo di mettersi in casa una vera STORSTOMMA, in polipropilene e vernice. Non siamo molto lontani dal campo semantico rappresentato dal caso del collutorio Listerine dalla bottiglia arcobaleno, che sembra un manifesto poetico, fuor di metafora, di

un caso rainbow-washing risolto con uno sciacquo del cavo orale.

C'è chi sostiene che la lotta per l'affermazione dei diritti della comunità LGBTQIA+ andrebbe lasciata nelle mani di chi la fa. Ma c'è anche chi pensa che ogni sforzo, ogni maglietta, ogni mascherina, possa finire per fare bene alla comunità, anche inconsapevolmente e perfino se in cattiva fede. Il fatto è che spesso c'è una sottile linea ultravioletta tra la malcelata genuinità delle intenzioni aziendali e il più insolente e calcolatore dei woke-washing. Può essere difficile rilevare la prima quanto è a volte facile sopravvalutare il secondo.

Il principale problema della prima tendenza è riuscire a cogliere con esattezza le sfumature di motivazione reale dietro la scelta di stare dalla parte giusta di un problema, se questo produce un evidente ritorno economico. Il problema della seconda tendenza è l'equivoco donchisciottista di fare la lotta ai mulini bianchi delle mission aziendali, quando esse vogliono farsi carico di gravi e delicati problemi sociali, situazione da cui anche la strategia corporate più specchiata uscirebbe con le pale rotte.

Per certi versi è un fatto che gli esseri umani non sono ancora stati in grado di proporre una causa abbastanza coraggiosa o barricadera da non essere passibile di sfruttamento commerciale da parte di altri esseri umani. Per altri, il desiderio di un brand di stare dalla parte giusta di un problema non postula che quel brand ci stia davvero, dalla quella parte. Tuttavia alcuni dei budget impiegati per dimostrare – quantomeno al mercato – di stare dalla parte giusta non possono non essere un segnale che quella parte sia riconosciuta come giusta da un pubblico sempre più vasto o, perlomeno, da un numero sempre più ingente di indagini di mercato; magari le stesse indagini che, un tempo, avrebbero imposto ai CdA di tenersi alla larga dal Pride, restando in silenzio e continuando a fare quello che già facevano benissimo, cioè vendere i loro prodotti cogliendo le occasioni fornite da altre cause, se non meno giuste, più accettate.

Mi si nota di più se mi alleo e non me ne sto in disparte o se non mi alleo per niente?

Potrebbe darsi che la verità non stia nel mezzo, ma in come e quando lo si usi. Un borsello esacromatico in nylon da 5 euro (senza alcuna raccolta benefica collegata) potrebbe non essere necessariamente meno woke rispetto allo Sport Loop proposto a 99 euro da Apple per i suoi smartwatch con donazione istantanea se, indossato dalla persona giusta al momento giusto, servisse lo scopo di far sentire anche solo una persona LGBTQA+ più accetta o rendere anche solo un potenziale alleato più proattivo. Perché la certezza di affermare Ho un arcobaleno nel marsupio no brand e non ho paura di usarlo vince sempre sul dubbio tra: Hai una voce di bilancio paracula in tasca o sei solo contento di vedermi?

Il merchandising anonimo, inoltre, fornisce strumenti per comunicare la propria alleanza o militanza in modo più libero da sovrastrutture e retropensieri, così come non è detto che chi acquisti un'imitazione della maglia della Juventus non stia compiendo, in base alle proprie disponibilità di liquidi e capacità di discernimento, un atto di fede calcistica meno devota di quella di chi compra solo maglie match worn (presudate) di Cristiano Ronaldo. Anzi, più è diffusa la cultura delle linee di prodotti Pride high-end e più diventa politicamente significativo il gesto di bypassarle indossando un marsupio no logo. Chi può negare a priori la possibilità che tra quelle zip così economiche non possa albergare una dimostrazione che i valori del Pride sono così duttili da rientrare dalla finestra di chissà quale grigia fabbrica di tanti altri marsupi grigi, magari in un Paese, come la Cina, noto per le sue politiche anti-LGBTQA+.

Farsi cingere la vita da quel marsupio sarà relativismo etico o realpolitik?

Non è certo universalmente valido l'assunto per cui più una causa è visibile è meglio è per essa. Ma è vero anche che intorno ai temi – complessi e variegati – che sono al centro delle rivendicazioni delle comunità LGBTQIA+ non ci si dovrebbe disporre, come maggioranza e opposizione, sui banchi di un'assemblea parlamentare o un concorso a numero chiuso: sono piuttosto materie di un immenso, universale esame di abilitazione a essere più umani. Un esame che potenzialmente possono superare tutti, anche perché non è neppure molto difficile (sebbene ancora oggi possa sembrare insormontabile).

Se il mondo in cui viviamo divenisse, d'un tratto, perfetto saremmo tutti liberi da pregiudizi e discriminazioni di ogni tipo, non solo quelli nei confronti degli appartenenti alle comunità LGBTQIA+. E le linee di prodotto Pride-friendly, ormai obsolete, farebbero notizia, nel bene o nel male, quanto una campagna per una giacca a quadri che stia particolarmente bene alle persone longilinee. Le aziende sarebbero libere di proporre cover arcobaleno per IQOS senza doverle riferire a una causa specifica che non fosse la pura volontà di vendere fumo riscaldato (questo purché, in un mondo perfetto, le sigarette elettroniche senza combustione avessero ancora motivo d'esistere).

Ma finché il mondo sarà quello in cui tutti viviamo, cioè estremamente imperfetto, ci saranno anche donne e uomini che agiranno, da attivisti o da imprenditori, da oppressi o da oppressori, o più semplicemente da impeccabili ipocriti o lealissimi maldestri. Qualcuno sarà dotato delle migliori intenzioni, altri partiranno dalle peggiori premesse e, in mezzo a loro, lungi dalla vittoria di Pirro del purché se ne parli ma anche dalla sconfitta a tavolino del meglio tacere e sembrare indifferenti, ci sarà sempre un universo intero fatto di talmente tante sfumature di benemerenza e disonestà che non basterebbe uno spettrometro a misurarle. Un universo variegato almeno quanto un arcobaleno LGBTQIA+.

Il merchandising a tema Pride dei Teletubbies è un capolavoro che gioca in un altro campionato rispetto alla concorrenza. Nel font usato per imprimere il loro messaggio su magliette, cappellini, calzini, e shorts (Big Hugs Big Love) ciascun carattere sembra abbracciare il successivo, il precedente, e sé stesso. Quando sulla spilla si riporta la parola Pride ogni Teletubbie interpreta una lettera. L'assoluta mancanza di sforzo per quelle grafiche implica chiaramente che i nostri amici non hanno avuto bisogno di alcuna girandola magica per prepararsi al Pride, a differenza degli altri eventi che caratterizzano la loro esistenza a TeletubbyLandia. Una conferma non necessaria, ma comunque gradita, di quanto Tinky Winky, Dipsy, La-La e Po e compagnia siano sempre stati obliqui e fuori asse e di quanto le rispettive antenne, di forme e colori diversi, fossero ben direzionate, all'unisono, verso la cosa giusta da fare. Il loro brand si ridefinisce e si riscopre retroattivamente alla luce della scoperta della loro iperurania queerness ante litteram.

I Teletubbies costituiscono il modello migliore di supporto corporate al Pride perché non rivendicano altro che il diritto di essere normalissimi nella loro diversità.

E lo fanno proponendo dei gadget originali pensati apposta per i loro fan grandi e piccini e devolvendo in beneficienza parte del ricavato a GLAAD, senza considerarlo, neppure per un istante, un merito più grande di avere un televisore al posto della pancia. Forse invitare i mercanti fuori dal tempio del Pride può essere illusorio come sperare che il capitalismo possa smettere di trasformare in cifre i temi che, di epoca in epoca, si rendono parte del discorso culturale di massa. Ma se altri facessero come i Teletubbies – veri cavallucci di Troia del Pride nel mainstream – sarebbe un'illusione più dolce.