Revenge Porn: non sapevo cosa fosse. Poi i miei amici hanno cominciato a chiedermi cosa ci faceva quel mio video hard sulla mia pagina di facebook: un fake clamoroso, messo in piedi ad arte dal mio ex marito. Era la sua vendetta per un divorzio non voluto, una forma sottile di violenza sulle donne. Tutto è cominciato con un banalissimo post sulla mia pagina: «Ciao, Guardate cosa faccio in Italia». A quello che si preannunciava come uno dei soliti messaggi da social era abbinato un torrido video di sesso orale che il mio ex marito aveva girato col cellulare ai tempi del nostro matrimonio - «un tuo ricordo che terrò solo per me», diceva mentre mi riprendeva.

L’inquadratura sghemba e maldestra puntava sulla mia bocca, sul mio abbandono, su quel privatissimo su e giù che ha senso solo nel segreto di un talamo, di una storia a due. E che altrimenti diventa subito pornografia di infima qualità. Non riuscivo a staccare gli occhi da quella scena, neanche fossi ipnotizzata: lui non si vedeva, ma quella donna ero io, su quello non c’erano dubbi, riconoscevo le lenzuola, la nostra camera da letto, quei gesti così familiari, ma che ormai facevano parte del passato. Da tre anni ero rientrata dalla Svizzera con nostra figlia, in fuga da un matrimonio finito per “alto tradimento” - il suo. Anche il nome sul profilo, i dati, le altre foto - alcune molto intime, imbarazzanti - erano i miei, persino la scelta di film e di pezzi musicali corrispondeva ai miei gusti. Tutto coerente, perfetto. Solo che quella pagina non era la mia. Era un fake, come mi hanno spiegato poi. Mi avevano rubato l’intimità. Quando ho realizzato che quel video hard poteva essere visto da parenti, amici, persino dal nuovo datore di lavoro - finito nella lista degli “amici” non si sa come - un’ondata di panico mi è salita dallo stomaco fino alla testa. La sensazione di essere stata violata era così insostenibile, che sono crollata a terra: per qualche secondo il mio corpo aveva staccato ogni connessione col mondo.

Quando mi sono ripresa ho pregato che si trattasse di un incubo, ma quelle immagini erano ancora tutte lì. Insieme alla consapevolezza che niente sarebbe stato più come prima: il mio tentativo di ricominciare una nuova vita in Italia dopo aver lasciato un uomo che aveva tradito la mia fiducia - indebitandosi con affari oscuri e ipotecando a mia insaputa la nostra casa - era stato spazzato via da un mare di fango. E dire che in quegli anni ce l’avevo messa tutta, puntando sull’unico bene che mi era rimasto: la mia reputazione. Vincendo ogni remora residua - lui nel frattempo aveva svuotato il nostro appartamento, privandomi persino dei miei ricordi d’infanzia - avevo avviato le pratiche per il divorzio, ed ero riuscita a riallacciare i rapporti con i colleghi di Milano, a riprendere la mia professione di fisioterapista in un centro medico. Avevo chiesto temporaneamente ospitalità a mia sorella, per dare a mia figlia Viola la sensazione di una famiglia, in un momento molto difficile anche per lei: nuova scuola elementare, nuove amicizie, nuove figure di riferimento (il papà era comunque importante per la mia bambina, avevo sempre cercato di proteggerla dalle nostre liti).

Persino mia sorella era stata coinvolta nell’incubo: tra le informazioni del “fake” si intuiva che ci prostituivamo insieme. Amici e parenti ci chiamavano allibiti per chiederci cosa stava succedendo (le segnalazioni arrivavano da tutte le parti, persino da conoscenti in Spagna, in Francia). Fin lì avevo resistito nonostante l’ansia devastante, l’allerta per le continue chiamate, gli squilli, le minacce ("se non torni in Svizzera ti sputtano con tutti, ti tolgo la bambina, vengo lì e ti taglio la faccia così non ti vuole più nessuno"). E l’azione giudiziaria era andata avanti, il divorzio era ormai a un passo.

Ma dopo lo shock del mio corpo nudo in pasto a chiunque, non ho retto più. Sono scivolata in una depressione di quelle che non perdonano: non mi alzavo più dal letto, anche sollevare un braccio, una gamba, mi riusciva difficilissimo, non parliamo di occuparmi della bambina, della casa. Quel minimo di stabilità, di sicurezza economica che ero riuscita a strappare con i denti e con le unghie, si stava sgretolando. Per la vergogna non uscivo più, non mangiavo, avevo perso 10 chili. Per fortuna c’erano mia sorella, gli amici, quelli veri, a tenermi in vita.

Alla fine la dritta giusta è arrivata da una collega che aveva vissuto una storia molto simile: è stata lei a darmi l’indirizzo di un centro milanese di primo aiuto per le vittime di violenza, il Soccorso Rosa. Lì mi hanno assistita innanzi tutto dal punto di vista medico e psicologico - ormai ero in uno stato pietoso. Ma nel contempo mi hanno fatto avere un’assistenza legale specializzata (e gratuita) per bloccare subito quella persecuzione devastante. Quello che mi stava accadendo - mi hanno spiegato con calma, dopo aver guardato insieme quelle immagini - capita purtroppo sempre più spesso alle donne (e a volte anche ai ragazzini vittime di bulli), tanto che ormai ha un nome, revenge porn. Qualche anno fa in California un ventottenne ha addirittura creato un sito specializzato in quel tipo di “revenge” con oltre 10 mila immagini e video postati da ex in cerca di vendetta, prima di essere fermato e condannato a 18 anni.

Ma anche da noi il rimedio c’è: querelare immediatamente, anche contro ignoti. Ci pensa poi la Polizia postale a identificare il responsabile. Nel mio caso non era stato difficile: c’erano tutti gli elementi per risalire al mio ex marito, che nel frattempo non si nascondeva nemmeno più dietro a false identità, e inviava le mie foto direttamente ai conoscenti per vendicare “l’affronto” di un divorzio al quale aveva tentato di opporsi con tutte le sue forze.

Anche se non viveva in Italia, l’azione giudiziaria contro di lui è partita immediatamente. Credo che le due Polizie si siano parlate, fatto sta che dopo esser stato richiamato dalle forze dell’ordine, ha smesso di colpo di perseguitarmi. Nel frattempo il processo in Italia è andato avanti, fino alla sua condanna a un anno e dieci mesi, più un piccolo risarcimento. Per cancellare dalla rete tutte le immagini c’è voluto tempo, ma è stata ancora la Polizia postale a ricostruire pazientemente i percorsi perversi di quelle foto rubate, e a eliminarle, ovunque fossero arrivate. Per cancellare l’ansia che mi si è appiccicata addosso, credo ci vorrà ancora parecchio: mi basta uno squillo del telefono, un dlin-dlin di notifica, per sobbalzare.

A farmi riconquistare la fiducia in un uomo ci sta provando il mio nuovo compagno con gran pazienza, devo dire. È che qualunque gesto affettuoso, qualunque momento intimo, nella mia testa me lo vedo scorrere su Youtube. È più forte di me: non riesco a non guardarmi da spettatore. Ci sto lavorando con la psicologa, ma abbiamo deciso che devo prendermi tutto il tempo che serve. La mia prossima sfida è quella di non trasmettere a mia figlia quest’ansia sottile, che non molla mai. Ha quasi tredici anni, sta cominciando con i primi flirt, i messaggini sul cellulare, i social. Una cosa però gliela dirò appena sarà un po’ più grande, con tutta la delicatezza possibile: mai giocare a farsi foto sexy. Nemmeno il più grande amore ha il diritto di rubarti attimi di intimità con uno scatto. “Il tuo corpo è qualcosa di prezioso”, mi diceva mia madre quando avevo l’età di Viola. Oggi mi sento di dire che l’immagine lo è altrettanto.

PER SAPERE DI PIÙ: su Facebook c'è una community per capire come difendersi. Il manuale, pluripremiato, è Giù le mani dalle donne (Mondadori), dell'avvocato milanese Alessia Sorgato. Tra le altre iniziative per il 25 novembre, Giornata Internazionale contro la violenza sulle donne del Soccorso Rosa.