Non fate i gradassi: lo sappiamo che quando il vostro Tamagotchi è morto la prima volta - negli anni 90 - ci avete quasi pianto (quasi?). Eravate adolescenti, o poco meno, e giù sensi di colpa a vagonate per averlo lasciato sporco e senza pappa, tutto solo in quell’ovetto di plastica che vi siete dimenticati a casa prima di partire per il weekend al mare con mamma e papà. C’è chi, scioccato dall’esperienza non ne volle più uno nuovo, mise in dubbio la possibilità di avere in futuro dei figli veri, un cane, un pesce rosso persino una pianta d’appartamento, persino grassa. Invece la buona notizia è che come in una puntata di Beautiful, il vostro Tamagotchi adorato non era mai morto, aveva perso la memoria, era fuggito in incognito, si era arruolato nella regione straniera e ora che si è ricordato di voi tornerà a casa (va bene, smettiamo). Tutto questo per dire che il giochino (malefico) capostipite dell’accudimento digitale torna in formato app.

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Riassunto per chi non lo conoscesse: il Tamagotchi era un sorta di portachiavi di plastica a forma di uovo con batteria e display che mostrava un esserino digitale vivo, e quindi bisognoso di tutte le cure di un cucciolo: cibo, acqua, pulizia, spazzolatura, gioco. Se non lo pulivi, cominciava a puzzare (non davvero, virtualmente), la casetta virtuale si riempiva di escrementini, se non gli davi da mangiare pativa la fame e se te lo dimenticavi nel cassetto lo trovavi morto. Ci si interrogarono fior di sociologi per contestare che il masochismo-stoicismo del bambino giapponese non coincideva con la lacrima facile di quello occidentale, ma poi sono nate un sacco di imitazioni, l’originale è sparito, è arrivato Pet Society (dove non moriva nessuno), poi Neko Atsume (dove se ai gattini randagi non dai da mangiare tu ci pensa un altro giocatore) e poi CryptoKitties, l’esserino che va tenuto in vita nutrendolo con cose che si comprano in bitcoin e altre crypto valute. Poi come diceva qualcuno, you always come back to the basic. La compagnia che ha inventato il Tamagotchi si chiama Bandai Namco, è giapponese (si intuiva?) e nel frattempo si è occupata di altro. Fino a quando ha annunciato che il suo cavallo di battaglia ritorna come app, forse anche per approfittare del calo di interesse verso Pokémon Go. L’app sarà disponibile gratuitamente per device Apple e Android, per cui, se volete superare quel trauma infantile irrisolto, non vi resta che scaricarla e riabbracciare (diciamo così) il vostro animaletto alfanumerico. Chissà se dopo 20 anni vi troverà cambiati (un filino?).