Sì, si può festeggiare: il premio Pulitzer del Giornalismo per il Pubblico Servizio è andato al New York Times e al New Yorker per aver scoperchiato il pentolone dei ricatti sessuali in cambio dei ruoli nei film, fornendo il propellente della protesta #metoo. A riceverlo, in particolare, sono le giornaliste Megan Twohey, Jodi Kantor e Ronan Farrow (coraggiose: mettersi contro lo showbiz per una giornalista può significare farsi azzoppare la carriera). E si può festeggiare perché il Washington Post ha vinto il Premio per il giornalismo investigativo con l’inchiesta su Roy Moore, il candidato dell’Alabama al Senato accusato di molestie sessuali su minorenni, mentre il Premio Opinione è andato a John Archibald dell’Alabama Media Group che ha coperto lo stesso argomento nel modo migliore possibile. Significa che tutte queste battaglie che ci hanno reso esauste nel 2017 non sono state dimenticate. Ma quelli assegnati sono tutti premi del cuore su temi sensibili, dal faticoso lavoro del Cincinnati Enquirer che ha vinto il premo della Cronaca Locale con un’inchiesta che dimostra come gli antidolorifici, regolarmente venduti, uccidano negli Stati Uniti più delle armi e degli incidenti d’auto, a quello del Des Moines Register sul sistema sanitario americano. C’è quello per Disegni e Vignette a Jake Halpern e Michael Sloan che hanno raccontato la vita di una famiglia di immigrati. E poi il Russiagate, i tragici effetti della vendita libera di armi negli Usa, e il premio per i Servizi Fotografici all’agenzia Reuters, per i quali due dei loro reporter sono detenuti nelle carceri birmane. L’espressione “sembra un Pulitzer” è entrata nel linguaggio comune da tempo e suscita rispetto. Ma non tutti sanno quanto sia interessante e piena di aneddoti la storia di questo premio prestigioso, praticamente l’Oscar dell’informazione, alla cui storia si aggiungerà il premio Pulitzer a Kendrick Lamar, quest'anno, il primo rapper nella categoria della musica. Intanto, chi è Pulitzer?

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Abbracci alla redazione del The Washington Post per il Pulitzer Prize Investigative Reporting

Joseph J. Pulitzer era un ungherese nato nel 1847, emigrato negli Stati Uniti a 17 anni e povero in canna. Si è arruolato nell’esercito nordista per combattere la Guerra di Secessione (e avere pasti regolari assicurati) e a conflitto terminato, per tirare avanti nel Missouri, svolgeva due lavori malpagati di 8 ore l’uno. Altre quattro ore studiava l’inglese, quattro dormiva. La sua fortuna nel giornalismo inizia quando abbocca all’inserzione-truffa di un lavoro come bracciante. Si imbarca sul piroscafo del sedicente datore di lavoro, pagando il viaggio, ma lui e tutti gli altri frodati vengono scaricati sulla costa, 60 chilometri dopo. Rientrato a Saint Louis a piedi, stremato, riceve dal direttore di un giornale la proposta di scrivere un resoconto della disavventura. Lo fa così bene che questo lo assume, dando il via alla sua carriera nel giornalismo. Quattro anni dopo, Pulitzer è il proprietario della testata. Divenuto editore, per dare una sede al suo giornale di punta, World, comprerà anche un hotel che per pochi spiccioli mancanti gli aveva negato la stanza nei tempi bui, lo fa demolire e al suo posto costruisce il Pulitzer Building di 20 piani (che oggi non esiste più). Le grane peggiori gliele danno il suo concorrente William Randolph Hearst, che ha ispirato il film Quarto Potere di Orson Wells, ma anche le innumerevoli cause legali che affronta per il tipo di giornalismo che adotta da subito (che è poi quelli di oggi, allora considerato spregiudicato). Diventa anche membro del congresso col Partito Democratico e quando, nel dopoguerra, la Francia si è trovata in difficoltà nella realizzazione della Statua della Libertà, Pulitzer ha usato il suo potere mediatico per avviare una raccolta fondi che ha risolto il problema. Ben presto, a causa del superlavoro e dello stress, Joseph Pulitzer diventò cieco e si ritirò a vivere su un panfilo. Ma niente, invece di riposare, da lì si fa leggere gli editoriali, fa riunioni, continua a lavorare. Morirà a bordo a soli 64 anni, nel 1911. Il famoso premio è stato istituito nel 1917 rispettando le sue volontà, grazie al lascito destinato alla fondazione che eroga ancora oggi i riconoscimenti economici ai vincitori con la Columbia University di New York.

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La redazione del Cincinnati Enquirer esulta per il Pulitzer Prize 2018

Anche la storia del premio Pulitzer curiosità ne ha molte. Per noi è facile leggere correttamente il nome ungherese del suo inventore, ma per aiutare gli anglofoni a pronunciarlo si usa la fonetica della frase “pull it sir” (tiralo, signore) e spesso, negli Stati Uniti, viene cercato su Google proprio così: Pullitsir Prize. Il Pulitzer, come si sa, è principalmente un premio giornalistico, ma le categorie premiate dalla giuria sono 21. Fra la gente, però, diventano più popolari i premi assegnati a scrittori, poeti e drammaturghi. Lo hanno vinto anche Sylvia Plath, Harper Lee, Arthur Miller, John Steinbeck, Cormack McCarthy, John Updike. Ma se la giuria non ritiene meritevole qualche scritto dell’anno precedente, il premio di quella categoria non viene assegnato. È successo nel 2012 quando non sono stati assegnati né quello per il miglior editoriale, né per il migliore romanzo. Pochi sanno che si si può “candidare” al Pulitzer se si ritiene di aver scritto qualcosa di straordinario, segnalandosi alla fondazione. Peccato che, nonostante il suo ideatore fosse straniero, è obbligatorio che l’opera sia stata pubblicata originariamente negli Stati Uniti, una testata straniera viene presa in considerazione solo se ha la redazione anche negli States (come il Guardian).

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Gregory Pecjk e Harper Lee vincitrice del Pulitzer Fiction nel 1961

Un’ultima curiosità riguarda la prima vincitrice del Premio Pulitzer, Edith Wharton, nel 1921. Il premio esisteva da soli quattro anni, per cui la vittoria di una donna avrebbe dovuto essere accolto come un segno di modernità. Ma non fu così perché il superfavorito era Sinclair Lewis con il romanzo La Via Principale (The Main Street) e solo all’ultimo momento la giuria aveva deciso di ribaltare l’esito. Con tutte le polemiche del caso che si innescarono. Persino la vincitrice, per qualche motivo che ai giorni oggi sarebbe inspiegabile, fu tra quelli che protestò per la mancata assegnazione a Lewis. Il tempo, invece ha dato ragione alla giuria. Il romanzo La via principale è sicuramente un capolavoro. Ma quel premio Edith Wharton lo guadagnò con L’età dell’innocenza, un vero long seller che molto tempo dopo, al cinema è stato anche interpretato da Daniel Day Lewis e Michelle Pfeiffer. Nessuno ha più il coraggio di protestare.