A cercarla su Facebook, non c’è. Nemmeno su Twitter o Instagram. L’unico veicolo social di accesso al suo mondo è uno stringato profilo LinkedIn: Helen Dixon, d’altronde, ai dati personali ci tiene. Per sé e per tutti. Ma chi è Helen Dixon, viene da chiedersi. Perché un nome così comune, semplicissimo, rischia di diventare l’incubo personale di Mark Zuckerberg, Jack Dorsey e compagnia Silicon Valley nei giorni pressanti dell’audizione del capo di Facebook al Parlamento Europeo? Si parte da un nome proprio di azienda e di scandalo: Cambridge Analytica. Da qui Helen Dixon entra pubblicamente nello scacchiere della protezione dati personali, mentre in Europa ci si prepara a suon di mail all’entrata in vigore del GDPR, incubo personale di moltissimi lavoratori digitali per l’aggiornamento delle norme sulla privacy a livello professionale. Helen Dixon, suo malgrado, una pedina roccaforte, la Regina immangiabile che può muoversi ovunque per proteggere dallo scacco matto al re, la privacy. Una partita concentratissima fatta di logica, di leggi, di resistenza. Helen Dixon che inchioda Mark Zuckerberg: una narrazione da Davide contro Golia troppo golosa per non parlarne. Ma persino i cacciatori di storie più incalliti, come il New York Times, ci sono andati cauti. Il fascino dello storytelling Helen Dixon contro Mark Zuckerberg è tanto, a maggior ragione perché della bionda irlandese che protegge i dati personali si sa pochissimo, è facile stabilire i due schieramenti e parteggiare per lei. Nella contraddizione quotidiana, mentre si dà in pasto ogni dettaglio della vita ai social, vorremmo invece proteggerci ed è grazie a persone come la silenziosa Helen Dixon che forse potremmo farlo. Forse.

Chi è Helen Dixon, in fondo, è riassumibile in poche stringatissime righe. 40enne irlandese di età non ben definita, non per vezzo da diva ma per la sua volontà di non far trapelare dettagli inutili all’infuori di quelli professionali. Una carriera universitaria di titoli: studentessa di lingue applicate, master in affari pubblici ed economici della UE, master in Governance, un diploma professionale in Official Statistics for Policy Evaluation (branca della statistica applicata) e infine un esame specifico per la conoscenza della giurisprudenza in Irlanda. Studiosa, quadrata, decisa Helen Dixon. La sua carriera comincia nel mondo dell’IT, dieci anni nelle multinazionali tech con base in Irlanda, poi si sviluppa al Department of Jobs, Enterprise and Innovation nelle aree tech per l’innovazione, passando anche per le politiche economiche migratorie. Complesso? Neanche troppo. Sono tutti tasselli che costruiscono la sfaccettatura e le competenze di curriculum di Helen Dixon, che nel 2014 viene nominata Data Protection Commissioner per l’Irlanda. Ed è qui che, tirando una linea sottile, la sua lotta silenziosa alla protezione dei dati personali inizia ufficialmente. Perché l’Irlanda è il regno felice delle multinazionali tech USA in Europa, il clone della Silicon Valley del Vecchio Continente dove tutte le aziende hanno impiantato le loro sedi grazie alle agevolazioni fiscali. Felicità economica, posti di lavoro negli uffici. Ed è in Irlanda che sono iniziati a porsi i primi dubbi sulla sovranazionalità felice di queste compagnie tech e il conseguente Far West nella gestione dei dati personali di migliaia, milioni e alla fine miliardi di utenti.

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Dati che involontariamente, la maggior parte delle volte, ma altre cliccando in modo svogliato sul celebre “Terms of Conditions” per sveltire le operazioni, cediamo ad aziende private fidandoci incondizionatamente. Dati che non sveleremmo nemmeno al nostro partner. “I dati sono il petrolio del nuovo millennio e la loro estrazione è legata alla produzione e delegata alle scatolette connesse” spiega Daniele Salvini nel suo saggio "Son grossi dati, servono grossi diritti" contenuto in Datacrazia (D Editore). “Noi stessi immettiamo volontariamente in rete dati personali, spesso senza tener conto che stiamo usando una piattaforma, come ad esempio la rete sociale monopolista Facebook, creata allo scopo stesso di raccogliere dati”. È una questione di diritti personali sulla quale si è iniziato a riflettere molto tardi e con gente come Helen Dixon: è una questione che da economica e di marketing si è spostata decisamente sulla politica. La protezione dei dati personali è politica: per questo Helen Dixon deve far paura a Mark Zuckerberg. Al di là delle narrazioni piacevoli della sua storia, della sua azienda passata da 30 a 140 persone, del fatto che il GDPR potrebbe far diventare Helen Dixon uno dei regulators più inflessibili della legge sulla privacy e sulla condivisione dei dati personali in Europa.

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Sulla testa di Mark Zuckerberg e Facebook pende la possibilità, scrive il NYT, di una multa pari al 4% della loro global revenue, che nel caso della F in campo blu è uguale a 1,6 miliardi di dollari. Il tutto se Helen Dixon e la sua azienda riusciranno a trovare il cavillo che inchioda al muro il "faccio come mi pare" promulgato da Zuckerberg&simili. Ma chi vede in Helen Dixon il Cerbero a tre teste non ha una visione completa del momento che stiamo vivendo. Il piccolo passo della tenace irlandese sarà il primo, forse, di un argine da costruire meticolosamente, dando un letto comodo e definito al fiume di dati che ogni giorno si riversano online. La mancanza di prontezza nel legiferare e comprendere come gestire questa mole mondiale senza mettere a rischio la privacy è stato il grande stallo che da più di vent’anni ha reso la protezione dei dati personali una landa selvaggia. Lo scandalo Cambridge Analytica è stato solo quello che è arrivato alla pubblica piazza, ma ci sono altrettante aziende che raccolgono i nostri dati, in continuazione, ad ogni login che facciamo, ad ogni informativa sulla privacy che ci sbrighiamo a scrollare e cliccare. Dati che ci riguardano: dati che siamo noi, in rete, di fronte a tutti. Dati davvero privati che nell’epoca del social sharing, però, devono comunque restare segreti. La tracciabilità del singolo mette a rischio la sua stessa vita: dati e metadati che rimandano a preferenze, opinioni politiche, abitudini d’acquisto, relazioni sentimentali. Qualunque dettaglio della nostra vita è tracciabile. E qualunque dettaglio della nostra vita ci rende targettizzabili per pubblicità sempre più specifiche, invasive, dettagliate sulle nostre preferenze e sulla creazione di bisogni indotti che ci spingono a comprare e condividere. No, non è George Orwell. Non è un romanzo distopico postmoderno. È la nostra realtà, la nostra consapevolezza di condivisione dei dati. E se il buonsenso non basta più, servono normative che ci impediscano di regalare pezzi di noi, in leggerezza, a compagnie che non garantiscono la sicurezza base dei nostri segreti. Confessabili o meno.