Quest'anno la Giornata mondiale del rifugiato, indetta dall'Onu ogni 20 giugno, assume un significato speciale a causa delle sfortunate vicende della nave Aquarius, approdata finalmente in Spagna con i 629 migranti. Contribuisce alla riflessione anche il documentario Sea Sorrow – Il dolore del mare di Vanessa Redgrave, 81 anni, in uscita proprio mercoledì 20 giugno nei cinema italiani e prodotto dall'attrice inglese insieme a Carlo Nero, figlio avuto dall'attore italiano Franco Nero.

Il film è una delicata riflessione sulla migrazione, che prende spunto da vicende personali di Vanessa Redgrave, come la fuga da Londra da bambina per evitare i bombardamenti, e fatti recenti, con scene girate in Grecia, Libano, Italia e Calais. La storia dei rifugiati in Europa intreccia quindi episodi della Seconda guerra mondiale, come i bambini ebrei salvati in Inghilterra con speciali treni, con quelle di oggi: su tutti la morte del piccolo Alan Kurdi su una spiaggia turca, uno degli episodi che ha spinto la Redgrave a produrre un film su questo tema. L'attrice infatti è ambasciatrice Unicef dal 1990.

Il titolo Sea Sorrow è una citazione dal dramma La Tempesta di William Shakespeare: la frase è pronunciata da Prospero mentre spiega alla sorella come siano scampati a un annegamento a bordo di una barca alla deriva (nel documentario è Ralph Fiennes a recitare il monologo). Abbiamo intervistato Vanessa Redgrave per chiederle il significato che il documentario Sea Sorrow – Il dolore del mare ha per lei, soprattutto oggi che esce in Italia (sotto una clip esclusiva).

preview for Sea Sorrow, Il dolore del mare

Ha detto: «Con il film volevo che le persone iniziassero a vedere i rifugiati come “qualcuno di noi” invece che “qualcuno di loro”». Si può davvero insegnare l'empatia?
Non son sicura si possa, in realtà. La mia vita è coinvolta, artisticamente e umanamente, nel mondo della comunicazione e volevo trovare il modo giusto di parlare di questo argomento. Serve davvero tanto impegno e lavoro per arrivare al pubblico, perché viviamo in una società dove i mezzi di comunicazione vengono sfruttati per far "esplodere" i cervelli delle persone con cose che non dovrebbero dimenticare. Generalmente si tratta di comprare qualcosa. Questo tipo di messaggi davvero distrugge il cervello e rende difficile sentire empatia verso qualsiasi altra persona.

Ha curato la regia di Sea Sorrow – Il dolore del mare, ma si è anche messa davanti alla cinepresa per raccontarsi.
Avevo paura di mettermi nel film in prima persona, non so perché. Ma mio figlio Carlo mi ha convinto, dicendo che le persone avrebbero capito molto di più se avessero sentito anche la mia storia personale.

Ha avuto un significato speciale girare il film insieme a suo figlio Carlo?
Non siamo andati in giro insieme. Lui ha raccolto alcune interviste, ai ragazzi in Italia per esempio, perché io non potevo andare. In altri luoghi sono invece andata io. È stato un piacere e una gioia lavorare con lui, perché è un ottimo produttore e perché capisce sempre quello che penso e mi incoraggia a indagare i miei pensieri in modo più profondo.

Cosa ha fatto scattare in lei l'urgenza di realizzare un documentario su questo tema?
Sono sempre stata una sostenitrice dei diritti umani e dei diritti dei bambini. Nel film racconto di quando nel 1948 ascoltai alla radio BBC la lettura degli articoli della Dichiarazione universale dei diritti umani. All'epoca ero una ragazza di 11 anni e quel momento ha segnato per me un nuovo inizio. Quella trasmissione mi ha profondamente ispirata e oggi il mio impegno è aiutare le persone ad ascoltare. Ho sempre voluto sostenere gli altri perché sono cresciuta con la guerra e tutti all'epoca eravamo educati all'idea di aiutare chi ci stava intorno.

Un episodio di speranza che ha avuto modo di osservare?
Con Carlo siamo stati allo Human Rights Film Festival di Norimberga per presentare Sea Sorrow – Il dolore del mare. Ci hanno raccontato che pochi giorni prima alcuni ragazzi di una scuola locale, in Baviera, avevano reagito per impedire che i compagni rifugiati fossero portati via dalla polizia. Quando sei avanti con gli anni pensi sempre ai giovani e io questo film l'ho fatto per loro. Lo so che è un periodo stressante, perché studiano tanto ma poi non trovano lavoro. Ho dei nipoti che me lo raccontano e io faccio sempre tante domande quando sono con ragazzi e ragazze, per capire meglio la loro realtà.

Da ambasciatrice Unicef parla spesso dell'importanza della gentilezza e della bontà nella crescita dei bambini.
Ho incontrato molti psicologi dell'età evolutiva che lavorano in zone di guerra e campi profughi. Una volta mi hanno spiegato che se i bambini sotto i 7 sette anni riescono a percepire la vera gentilezza, allora avranno la consapevolezza per il resto della vita che esiste un sentimento come la bontà umana. E questo darà loro forza per tutta la vita. È un'età ultra formativa: pensate a cosa può fare questo piccolo ma enorme pezzetto di consapevolezza.