Dopo un’ora circa di chiacchiere con Claire Foy, a Berlino, la conversazione cade sul latte materno. Claire mi offre una quantità di informazioni personali con la naturalezza che avrebbe con una persona conosciuta da sempre, mentre la sua faccia incredibilmente versatile dà corpo a una gamma di emozioni che va dal sorpreso (i grandi occhi azzurri spalancati) all’inorridito (il naso arricciato). Sembra sempre esserci una certa confusione sul come la sua vita sia arrivata fino a questo punto, ma con alle spalle una carriera stellare e una bambina di 36 mesi appena compiuti dev’essersi trattato di un paio d’anni febbrili. Quale aspetto le è sembrato più difficile? «Fisicamente è stato abbastanza provante», dice. «Dopo il parto ho dovuto prendermi cura di me stessa ma anche lavorare tutte quelle ore, sentendomi pure in colpa perché lo facevo. Tanto che per stare un po’ con mia figlia mi obbligavo ad alzarmi prestissimo, trasformando in un casino qualunque posto in cui mi trovassi».

«Del resto, tutto è complicato», continua Claire Foy, più con un’aria di resilienza che di rassegnazione. «Tutto è una sfida. Un giorno è incredibilmente bello, quello dopo una schifezza, ma quello seguente sei ancora lì, sei ancora in pista».

Poco dopo che ci siamo incontrati, Foy e il marito, Stephen Campbell Moore, hanno comunicato che si sarebbero separati per un breve periodo. Claire Foy è una bravissima attrice, perfettamente nella parte sia nel suo ruolo più importante, quello della taciturna Elisabetta II in The Crown, sia nei panni della dispettosa Anna Bolena, nella mini serie Wolf Hall - e finge bene.

E in più c’è che forse io sono solo un’idiota a credere che il fatto che non porti la fede sia perché si trova in Germania per interpretare Lisbeth Salander, cioè una single incallita, in Quello che non uccide. Comunque sia, alla luce di questa recente notizia, alcuni dettagli della nostra conversazione sembrano improvvisamente un po’ finti, come quando le chiedo se Campbell Moore fosse geloso della sua carriera come il duca di Edimburgo in The Crown, quando la moglie si aggiudica un ruolo molto più significativo del suo. «Non mi sono mai trovata in una situazione del genere», risponde, «e non potrei mai stare con qualcuno se si verificasse una cosa simile». Il che non è da prendere troppo sul serio. Claire Foy confeziona le risposte a seconda di come le gira. Testa sul momento il senso di quello che sta dicendo e spesso rende più stimolante la conversazione mostrandosi sorpresa di quello che ha appena risposto, magari ridendo di se stessa per avere osato tanto.

​Claire Foy in The Crownpinterest
Courtesy photo Everett/Contrasto
Claire Foy in The Crown

Si presenta con un cappello rosso, che una volta tolto rivela un taglio punk stile Salander, l’hacker della trilogia di Millennium di Stieg Larsson. «Berlino è il posto migliore per questa pettinatura», dice. «Qui ce l’hanno tutti. Se fossi a casa mi direbbero: “È un po’ audace!”». Così la conversazione torna al punto di partenza, e passiamo talmente tanto tempo a parlare di una festa per bambini cui ha partecipato («tutti cerchiamo di tenerci stretta una parvenza di vita normale») che alla fine mi tocca ricordarle che in realtà dovrei intervistarla. «Oh mioddio, non farlo», dice di botto. «E di cosa dovremmo parlare?». Di un film, Unsane (nella sale dal 5/7), che ha fatto con Soderbergh, nella parte di un personaggio dall’improbabile nome di Sawyer Valentini, maniaca del lavoro, e di Tinder, vittima di uno stalker molto somigliante a Bill Bryson (scrittore e giornalista americano, ndr) prima che i capelli gli si ingrigissero. Si incomincia con la donna che firma per essere ricoverata “volontariamente” in una struttura psichiatrica, ma se non fosse per la regia di Soderbergh, e la rigorosa interpretazione di Foy, il casino che ne consegue sarebbe tremendo. E non basta: essendo il regista uno che ama gli esperimenti, tutto è stato girato con un iPhone, in soli 10 giorni. Lui lo chiama il suo film “da adolescente”, spiega, ed entrambi si sono sentiti molto liberi nel farlo, benché il tema sia sinistro.

Claire Foy in Unsane di Steven Soderberghpinterest
Courtesy photo
Claire Foy in Unsane di Steven Soderbergh

Questa è stata una stagione eccezionale per Foy, per anni nota soprattutto come interprete di Little Dorrit, una serie tv della Bbc. Presto sarà Janet Armstrong, la moglie di Neil, il primo uomo a sbarcare sulla luna, in First Man, il classico film acchiappa-Oscar con Ryan Gosling nella parte dell’astronauta. E tra questo, Unsane e Quello che non uccide, il 2018 le sta dando una grossa mano per far apparire del tutto fuori luogo quel «non sarò mai una stella del cinema», che ha coniato lei stessa qualche tempo fa. «Ridicolo», conferma buttando indietro la testa. Il punto è che lo crede davvero. In parte per essere abbastanza una guastafeste, in un mondo che non tollera novellini con il cervello, poi per aver rifiutato molti dei ruoli proposti dai suoi agenti americani. Inoltre, oltre a essere terribilmente selettiva, è anche una che ha «attivamente evitato» Harvey Weinstein. «Sapevo com’era», spiega. «Quello di dover “baciare l’anello” era un fatto da mettere in conto, io però ero del tipo “non lo faccio per nessun fottuto motivo”. No, grazie. Brutale: no, così no. Non avrei mai lavorato con qualcuno di ambiguo». E lui adesso è fuori, e lei eccola, una regina a Hollywood, con una carriera cinematografica agli esordi ma importante, e tutto ciò da The Crown in poi, cioè da poco più di un anno e mezzo fa.

Foy viene da una famiglia di immigrati irlandesi della working class «che si è ammazzata di lavoro», e lei è sempre stata «attenta al denaro e al fatto di non averne». Si occupava di televendite e lavorava nei pub, il che, dice «non è per niente elegante». Ma proprio da The Crown in poi, quando cioè ha allattato nei panni di una regina, l’attrice sembra essersi ritagliata un potere speciale sul set; e questo benché la recente ammissione del coprotagonista Matt Smith (interprete del principe Filippo, ndr) di aver ricevuto un compenso superiore faccia sembrare diversamente. Il fatto di tornare al lavoro subito dopo il parto, spiega, è una cosa che ogni donna merita. «Quando sei in età fertile, le possibilità sono due: o scomparire o non avere figli, per poi essere giudicata, ovviamente. Assurdo», aggiunge con aria corrucciata. «È difficilissimo tornare a lavorare presto. Nulla lo incoraggia. Semplicemente, non è così che si fa. Ma io ho deciso che non voglio crescere mia figlia nello stesso mondo in cui sono cresciuta, e poi voglio cambiare il mio modo di pensare». Quando le chiedo come, risponde che prima era spaventata all’idea di urtare la sensibilità di qualcuno, perché troppo preoccupata di che cosa la gente potesse pensare. «Non mi ero mai trovata nella situazione in cui sentirmi arrivata potesse essere di utilità, e invece adesso lo sono». Vista di persona, per quanto possa sembrare poco elegante, emana la stessa passione latente che vedi sullo schermo, una rabbiosa, umanissima consapevolezza che le risposte sono dietro l’angolo, ma ancora fuori dalla tua portata. Ed è più o meno qui che abbiamo ricominciato a parlare di allattamento. Sua sorella e le amiche le hanno dato un po’ di consigli. «In questi due anni ho capito che i miei amici sono la gente…», dice, ed è l’unica volta in cui esita per cercare le parole. «Mi sento accettata, e le donne hanno molto bisogno di questo. Di essere meno giudicate. Di poter dire “mi sento una schifezza” e avere qualcuno che ti risponde, “ok, va bene”. È un tale sollievo scoprire che anche gli altri fanno fatica. Perché la vita è difficile», dice sorridendo. E non pare il sorriso di circostanza che spesso deve fare una regina.