Il commento più esaustivo è irriproducibile per iscritto. Servirebbe quella cadenza romana allargata nelle vocali aperte, con le consonanti che sbattono sul retro dei denti e una lacrima che si ferma in punta di occhio. “La vita è ‘na gran fija de na m…”, davvero. Non basta. Sarebbe servita la sua cadenza romana, gli occhi brillanti nel raccontarti il percorso di un suo piatto. O anche gli affaracci suoi, dei quali parlava previa annusata dell’interlocutore stressando una sigaretta nell’aria. Chef Alessandro Narducci è morto nel modo più crudele per i suoi 29 anni. Un incidente in scooter sul Lungotevere, nel venticello dolce di giugno e di quella Roma dove si stava imponendo come uno dei più talentuosi e indomabili chef promettenti. E il risveglio in questa mattina post solstizio d’estate è stato tremendo. Pieno di parolacce che non sono sufficienti a trasformare il dolore in rabbia, più facilmente gestibile. Alessandro Narducci avevo appena iniziato a conoscerlo di persona. Ed era divertente e difficile, come i cavalli che gli piacevano ed erano la sua metafora migliore. Capace di scartare a sinistra e correre via, libero, senza freni, evitando i padroni, a piedi nudi in un parco selvaggio. Curioso e paradossalmente placido, silenzioso nello scrutare profondamente chi aveva davanti, imponente nelle sue giacche bianche immacolate a fine servizio. Cercava di inquadrarti per primo, Alessandro, assetato di sapere. E fiutava se poteva fidarsi, aprirsi senza ricevere fregature.

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Chi aveva approcciato la cucina di chef Alessandro Narducci era stato preso a sberle sul palato. E non metaforiche, queste. Sapori forti, aggressivi, testosteronici. Talmente decisi da dribblare l’estetica curatissima, la ricerca della presentazione assoluta con quel tocco di imperfezione che li rendeva completamente suoi. Una gara allo stupore a volte calibrata, altre palesemente sbagliata, dalle quali Alessandro Narducci usciva sempre a testa alta. Orgoglioso fino in fondo anche dei suoi errori, dai quali ripartiva non per correggerli ma per migliorarli. Se sbagli una nota, rifallo di nuovo, recita una frase sul jazz. Ecco, Alessandro Narducci era jazz a modo suo, capace di partire da un tema per sovvertirlo e poi ritornarci, rendendolo nella sua interpretazione. Era la parola che gli piaceva e che lo descriveva: interpretazione. Non versione. Era capace di dardeggiare dagli occhi se un termine non era quello giusto per esprimere il concetto che voleva farti capire. Difendeva l’attenzione, le sue peculiarità, i suoi inizi, la somma delle piccole cose che lo avevano cresciuto. Il piatto simbolo di Alessandro Narducci era la panzanella, elevata nell’essenza di recupero a chicca da stellati, preziosissima, succosa, sessuale più che sensuale. Fisica che volevi leccare il piatto (e lui si sarebbe pure goduto lo spettacolo). La cucina di Alessandro Narducci era estrema: tanto possente nei main course, quanto delicata ed eterea nei dessert. Dove paradossalmente si scatenava in creazioni strabilianti di consistenze e dolcezze. Il suo Birra & Noccioline, che lui semplificava in “dolce maschile”, ci aveva fatti dibattere buoni minuti sulla validità dell’aggettivo. E alla fine Alessandro, incredibilmente, aveva ceduto dandomi ragione.

Questo imperfetto fa male, sospende in modo illusorio il tempo. Forse serve a lenire un po’ lo sgomento, a far risalire i ricordi consolatori. Quell’intervista per cui lo avevo corteggiato diversi giorni si era trasformata in una confessione personale off the record, come se dice, per favore. Una seduta psicologica profonda dove ci eravamo messi a confronto, dismettendo i panni di giornalista e chef per tornare ad essere due persone, amici in potenza, stima reciproca nata dall’iniziale diffidenza dei ruoli. E tantissime curiosità da ricomporre nel puzzle di quando conosci qualcuno. Qualche sera fa (l’ultima volta, quanto mi fa male) Alessandro Narducci ci aveva convocati espressamente un bicchiere tutti insieme, post servizio. E nella notte romana che diventava sempre più silenziosa avevamo finito per dilungarci fino alle tre del mattino, a comparare le nostre vite e felicità promettendoci sempre più cene e serate in compagnia. Che in fondo, fuori da tutto, eravamo persone che avevano bisogno di una rete di salvataggio e avevamo appena iniziato a metterla insieme, con rispetto e stima. Mannaggia a tutto, Alessandro.