Era da mesi che le Pussy Riot non mettevano a segno una protesta di risonanza mondiale, ma la finale dei Mondiali di Calcio 2018 era un’occasione imperdibile per tornare a quelle proteste di ampia risonanza. In sintesi, per chi non ha visto la partita, quattro persone vestite da poliziotto hanno fatto irruzione in campo durante il match Francia – Croazia, mentre su Twitter partiva prima il tweet “ciao a tutti, bella vista qui dallo stadio Luzhniki” e poi un altro “Alert, le Riot sono sul campo". Indubbiamente un’azione che ha aperto una crepa nella vantata sicurezza inespugnabile dello stadio, e che sicuramente ha fatto irritare il presidente Putin, che era, ovviamente, presente. Vladimir Putin è IL bersaglio delle Pussy Riot. L'ultima mossa contro di lui è stata la registrazione di un nuovo pezzo Elections, to protest against in occasione del ritorno alle urne in Russia del marzo 2018. Ma quando le Pussy Riot o le Femen colpiscono, riescono a smuovere ancora le coscienze di una società anestetizzata e assuefatta a tutto? La richiesta della band punk femminista, questa volta, è quella di liberare i numerosi prigionieri politici nelle carceri russe, soprattutto il regista ucraino Oleg Sentsov che sta facendo lo sciopero della fame. Le Pussy Riot conoscono bene il carcere russo.

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Nato nel 2011 il gruppo punk delle Pussy Riot ha espresso da subito l'intenzione di combattere contro l’establishment. Con le Femen, già in attività dal 2008, nate invece in Ucraina e ora stanziate a Parigi, si distinguono principalmente per il campo d'azione e per l'aspetto: mentre le Femen usano l'esibizione del seno nudo per rovinare la festa ai maschilisti, rompendo nel loro immaginario il giocattolo preferito, le Pussy Riot si coprono più del necessario, viso compreso, anche se l'essere solo donne è un messaggio provocatorio preciso contro il machismo del presidente. All’inizio le Pussy Riot hanno guadagnato molto spazio sui giornali grazie alla fotogenia del loro look: calze, abiti sformati e passamontagna – anzi, i balaklava – tutti coloratissimi. L'anonimato, forse, ha permesso loro di essere anche intercambiabili senza che nessuno se ne accorgesse. Il nome, che nessuno ha bisogno di tradurre, è stato scelto in inglese per ottenere più viralità internazionale, e allo stesso tempo per infastidire in Russia. Dal 2011 le Pussy Riot, di cui qualcuno contesta l’associazione col concetto “punk”, hanno lavorato di flash mob soprattutto a Mosca, mentre le Femen ovunque. Per quanto, semplificando dall’esterno, la Russia possa apparire per qualcuno come un esempio di rigore, non è considerata da molti dei suoi cittadini uno Stato ideale, soprattutto per quanto riguarda il rispetto dei diritti civili (è nota, ad esempio, la legge che vieta ai gay di “fare propaganda” per la propria causa). È il motivo per cui i movimenti di protesta più hard core nascono nell'ex Unione Sovietica e colpiscono il presidente, ex funzionario del Kgb.

Non pochi pensano infatti che le provocazioni servano solo a stizzire Putin, scatenandone l'ira

C’è chi, come Madonna, ha appoggiato le Pussy Riot nel 2012. Quell'anno le Riot realizzarono la loro performance destinata a restare la più famosa in assoluto: un'incursione nella Cattedrale di Cristo Salvatore a Mosca, durante una celebrazione religiosa. È bene premettere che in Russia salire sull’altare è considerato blasfemia seria perché la chiesa è luogo di culto e basta, non (anche) una tappa turistica-culturale, come da noi. Le Pussy Riot ci salirono invece con le chitarre (subito sequestrate) e si misero a ballare e cantare. Vennero arrestate e iniziò un lungo processo seguito da mezzo mondo, ma che divise l’opinione pubblica anche in patria. Lo seguì anche Madonna, che diede un concerto proprio a Mosca in supporto alle ragazze, accusate di teppismo e istigazione all’odio religioso. Finirono per essere condannate a due anni di reclusione – ne rischiavano sette – mentre si diffondevano le notizie sui presunti abusi che avevano subito durante la custodia. Spuntò fuori, sui social, la polemica secondo cui l’intervento di Madonna non era servito a evitare la pena massima, ma a fargli perdere ogni possibilità di assoluzione. Non pochi pensano infatti che le provocazioni servano solo a stizzire Putin, scatenandone l'ira.

Ci hanno chiamato sacrileghe, puttane e cento altri modi

Di una delle condannate, Mariya Alyokhina, al tempo 23 anni, si parlava molto di più perché aveva già un figlio. Uscita dalla colonia penale in cui ha trascorso i due anni, non ha perso la voglia di battersi “per una Russia e un mondo migliori”, ma la sua attività è diventata più istituzionale e pacata. Alyokhina ha scritto anche un libro, Riot Days, in cui racconta tutto, dalla nascita del sedicente gruppo femminista punk fino a quel giorno. “Nel nostro caso, la propaganda partì a tutta velocità. Ci hanno chiamato sacrileghe, puttane e cento altri modi”, racconta. Alyokhina ha smorzato i toni, oggi, e non ha nemmeno 30 anni. Rilascia ogni tanto delle interviste durante le quali beve cappuccini a raffica e accende la nuova sigaretta con quella che si sta spegnendo. Il carcere non modella, come dice Cetto Laqualunque, il carcere ti spezza. Difficile pensare che Mariya Alyokhina fosse preparata ad affrontare qualcosa di più di un paio di mesi al massimo di reclusione per la bravata. Non si sa cosa attenda le tre autrici della sortita allo stadio, più un uomo, se non dovessero poter pagare la pesante multa che li aspetta. Pochi giorni prima una donna è salita sulla Statua della Libertà, a New York, per protestare contro le politiche immigratorie di Trump, e non è neanche lontanamente ipotizzabile che possa trascorrere due anni in una colonia penale. Questa è la differenza che porta a fondare gruppi come le Pussy Riot e le Femen, da quelle parti. Qualcuno si chiede se tutto questo, se il sacrificio che ha sopportato anche il figlio di Alyokhina, abbia avuto un senso. Se protestare con il seno nudo o con un passamontagna porti dei risultati, o solo danni. La risposta è forse equamente distribuita fra i due concetti. Perché al di là del fastidio espresso un po' ovunque, all’indomani della finale dei mondiali Francia Croazia, anche leggendo un giornale sportivo chiunque è venuto a sapere che esiste un ucraino di nome Oleg Sentsov, di 42 anni, che non mangia da 62 giorni per protesta, condannato a 20 anni solo per aver supportato la Rivoluzione della Dignità in Ucraina. Per rinforzare un po’ la pena è stato anche accusato di aver pianificato atti terroristici a cui gli attivisti non credono. Qualcuno in più, ora, si muoverà per lui, oltre alle associazioni dei diritti umani?