Bradley Cooper è uno di quegli attori che noti in un film, poi lo vedi in un altro e ti trovi costretto a riconsiderarne la sostanza, e appena risbuca in una nuova produzione, c’è da modificarne da capo il profilo. Per amore di sintesi, ci piace fissare la sua parabola con due precisi punti cardinali: il suo fascino situazionista e sgangherato in Una notte da leoni di Todd Phillips, e quella faccia pulita, marziale che lotta indefessamente contro la deriva interiore in American Sniper di Clint Eastwood. Ma adesso tocca ricominciare perché aver diretto oltreché interpretato A Star is Born accanto a Lady Gaga, fuori concorso al prossimo festival di Venezia, denota evidentemente una follia da fuoriclasse. Le versioni precedenti della storia, due cult, una con Judy Garland firmata da George Cukor e una di Frank Pierson con Barbra Streisand e Kris Kristofferson, avrebbero inibito chiunque. E dunque:

Quanta ambizione ci vuole per farcela a Hollywood?

Tanta. Io sono cresciuto con la passione del cinema, guardavo un sacco di film, ho sempre saputo che volevo far parte di quel mondo ma mi terrorizzava. Da bambino avevo paura di parlare in pubblico e da ragazzo ero piuttosto timido. Ma sono molto curioso, mi piace sperimentare, provare cose nuove, e adoro raccontare storie. È quello che speravo di fare. Era il mio obiettivo.

Qual è stato il vero punto di svolta nella sua carriera di attore?

Penso a com’ero quando ho iniziato e a dove sono oggi, a 43 anni. Nei primi dieci di questo mestiere mi preoccupavo solo di essere il più naturale possibile sullo schermo, stare davanti alla macchina da presa e dire le battute scritte nel copione. Ma non mi ero spinto in territori più insidiosi, non avevo ancora interpretato personaggi con un modo diverso di esprimersi e che venivanoda realtà diverse dalle mie. Ho avuto l’opportunità di farlo a cominciare da American Sniper. E mi sono detto: «A parte il fatto che siamo entrambi degli uomini, e abbiamo la stessa età e lo stesso numero di scarpe, io non sono come Chris Kyle. E allora come faccio, da dove inizio?».

Mi ricordo di avere annunciato a Clint Eastwood: «Se non riesco a diventare Kyle, a essere davvero lui, non posso fare il film». Quando ti metti alla prova ti serve più tempo per prepararti, mi ci è voluto un anno. Il personaggio del mio nuovo film, A Star is Born, è ancora più lontano da me di quanto fosse Kyle, e di anni ce ne sono voluti tre. Chissà come sarà in futuro. (Ride) Magari per il prossimo ce ne metterò 10, in fondo per fare The Elephant Man in teatro ne ho impiegati... be’, ho iniziato a 12 anni.

Lady Gaga Bradley Cooper sul set di È nata una stellapinterest
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Bradley Cooper nei panni di regista

E cosa fa sbloccare la situazione?

Più invecchio e più trovo che tutto stia nella voce, è la cosa più importante. Quando riesci a sintonizzarti con quella del tuo personaggio, e poi ci lavori su per precisarla e perfezionarla, allora diventa una cosa organica, una parte di te.

Un ruolo che le piacerebbe ottenere e che ancora non ha avuto l’occasione di interpretare?

È buffo che lei mi faccia questa domanda perché in effetti ce n’è uno. Stavo proprio pensando che ci sono sei personaggi che ho sempre voluto interpretare, e sono riuscito a calarmi praticamente in tutti tranne questo... E di recente, tipo una settimana fa, è venuto fuori che c’è un film in cui potrei farcela. Sono scaramantico e non voglio parlarne, ma sarebbe fantastico.

Perché si è dato alla regia?

Ho avuto il grande onore di lavorare con registi incredibili come David O. Russell, Clint Eastwood e Todd Phillips. Quando facevo un film con loro non ho mai pensato che avrei dovuto girarlo io, però ho sempre saputo di essere un po’ diverso dagli altri attori che recitano e basta, perché mi ha sempre interessato capire come si costruisce un film, come si racconta una storia.

Quando ha deciso che avrebbe diretto A Star is Born?

Avrebbe dovuto farlo Clint Eastwood, dovevamo lavorare insieme, ma secondo me io ero troppo giovane e non ero giusto per quel ruolo. Quella tragica storia d’amore, però, non mi si levava dalla testa. Mi venivano in mente delle scene, oppure la sognavo, insomma ho capito che in qualche modo dovevo liberarmene. La gente era stufa di continuare a sentirmi dire che avrei voluto dirigere un film. Dovevo provarci. E mi è piaciuto da matti. Perché A Star is Born è una commedia musicale, e quando canti non puoi nasconderti. Se vuoi parlare d’amore, il miglior modo per farlo è attraverso la musica, suonando e cantando, e sapevo che, se fossi riuscito a mettere tutto questo insieme, il risultato sarebbe stato speciale. Ho speso molto tempo in sala montaggio, il film sarebbe dovuto uscire in maggio, ma è stato meglio così.

Quanto sono durate le riprese?

42 giorni. Ma l’ultima volta che ho lavorato, prima di preparare questo film, è stato l’8 agosto del 2015, a teatro, a Londra.

In A Star is Born Lady Gaga è più brava di Barbra Streisand ?

Devo dire che Stefani è stata una rivelazione (il vero nome di Lady Gaga è Stefani Germanotta e lui l’ha sempre chiamata così, ndr). Appena abbiamo iniziato mi ha detto: «Facciamo un patto: conto su di te per riuscire a recitare bene», non aveva mai fatto un film, «e io ti garantisco che ti trasformerò in un musicista, perché canteremo tutto live». Le ho detto: «Ehi, aspetta un momento». E lei: «No, faremo così, non sopporto i film musicali in cui si capisce che cantano in playback». Ha ragione. Con terrore, mi sono fidato di lei.

È riuscita a trasformarla in un musicista?

Per fortuna ho avuto molto tempo, ho preso lezioni di canto per circa un anno e mezzo, e poi mi sono esibito in pubblico. Una delle cose fantastiche di questo film è che, girando tutto live, siamo andati a dei veri concerti, a delle esibizioni dal vivo, e abbiamo suonato sul palco per quattro o cinque minuti. Allo Stagecoach Festival ho cantato davanti a 20mila persone, poi ci siamo esibiti a Glastonbury, il più grande festival privato di musica all’aperto del mondo, e io ero lì, su quel palco a forma di piramide, a cantare davanti a 80mila persone. Pazzesco. L’estate scorsa, per un caso, si esibiva a Glastonbury anche Kris Kristofferson, che negli anni Settanta ha interpretato una famosa versione di A Star is Born. È grazie a lui che ho potuto cantare. Mi ha dato 4 minuti dei 12 che aveva a sua disposizione.

Ha fatto film con tanti registi importanti. Ha preso qualcosa del loro modo di lavorare quando si è ritrovato dietro la macchina da presa?

Sì. Mi ricordo di un’intervista in cui Mike Nichols, poco prima di morire, parlava di quando aveva diretto il suo primo film, Chi ha paura di Virginia Woolf? Credo fosse stato un attore e ascoltandolo mi sono reso conto che fare il regista è proprio come recitare, ti devi preparare; ma poi quando inizi a girare devi dimenticartene e improvvisare. Ero contento di avere visto questa intervista prima delle riprese del mio primo film. Perché come attore sono al meglio proprio quando faccio così. L’ho notato quando lavoravo con David O. Russell, lui osserva tutto quello che succede sul set ed è capace di prendere ispirazione da un particolare momento e poi fonderla nella storia che vuole raccontare.

Fare il regista l’ha resa migliore?

Di sicuro ho notato che recito meglio quando ho anche altre cose da fare o a cui pensare. Mi è successo con The Elephant Man. La deformità fisica del personaggio mi assorbiva a tal punto il corpo e la mente che era facile essere nello stato emotivo che la storia richiedeva, non era una questione di testa. Così, quando in un film sei anche il regista, devi occuparti di talmente tante cose che ti dimentichi di dover recitare, non ci badi. Partivo e basta, riuscivo a sorprendere continuamente me stesso.

La cosa più importante che ha imparato come attore?

La devo soprattutto a Robert De Niro: «Non forzare troppo, non cercare di strafare». Qualsiasi cosa ti succeda in una scena. Poi quando sei in sala montaggio realizzi quanto paghi la naturalezza: «Wow, non mi ero accorto di questa particolare sfumatura quando giravamo quella scena». È venuto fuori per la prima volta in American Sniper. Ci sono scene in cui il protagonista si commuove e sapevo che nel film sarebbe arrivato il momento in cui crolla e va in pezzi, ma non sapevo esattamente che cosa sarebbe successo quando lui chiama lei da un bar. Mi ricordo molto bene quel momento, ero terrorizzato e mi sono coperto la faccia con una mano, per impedire alla macchina da presa di riprendermi mentre piangevo, ho pensato che a Chris non sarebbe piaciuto che lo avessero visto in lacrime. Ho potuto farlo perché so che se sul set sento di dover fare qualcosa, è okay. L’ho imparato da Bob.

Com’è stata la prima volta in cui lo ha incontrato?

Bob De Niro mi ha cambiato la vita. Lo ha fatto due volte, senza neppure saperlo. Dopo essermi laureato frequentavo l’Actors Studio a New York. Un giorno, in teatro, io ero tra il pubblico e gli ho fatto una domanda. Ero terrorizzato, perché era una domanda un po’ strana su Risvegli, su quando un certo farmaco comincia a non avere più effetto e nel film lui ricomincia ad avere dei tic. Gli ho chiesto: «Quei tic erano nel copione o no?». E lui: «È una bella domanda». È come se un fulmine mi avesse attraversato lo stomaco, perché a nessun altro aveva detto una cosa così. «È una bella domanda». Ho fatto vedere a tutti il video di quell’incontro. «Guarda, Robert De Niro mi ha detto: “È una bella domanda”», e quella sua risposta per tre anni mi ha dato la forza per andare avanti. E non sto scherzando.

Glielo ha mai detto?

Sì. Un giorno sono a New York, lui sta facendo Stanno tutti bene, dove nella parte di suo figlio ci sarà poi Sam Rockwell. Giro un video con il provino per quella parte, lo mando e lui, miracolo, lo guarda, e il mio agente mi chiama: «Robert De Niro vuole vederti». Ho pensato: «Oh my God». E pensare che quel video l’avevo fatto in casa, con mia madre che faceva De Niro, nonostante io le dicessi: «No, mamma, parla in modo normale, non cercare di essere Robert De Niro». Era una cosa assurda, esilarante, ma lui l’ha guardato, e così io sono andato in camera sua all’hotel Bel Air di Los Angeles. Era il 2008, me lo ricordo perché sulla Cnn c’era Hillary Clinton, c’erano le primarie del Partito Democratico. Non riuscivo a credere che avrei incontrato De Niro in persona, l’avevo visto solo quella volta in teatro. Lui mi ha detto: «Quella parte non l’avrai, ma volevo incontrarti perché nel tuo video ho visto qualcosa di speciale e lo vedo anche adesso, tutto qui. Abbracciami». Ci siamo abbracciati e me ne sono andato. (Risata) Dopo un po’ di tempo ero nella giuria del Tribeca Film Festival e ci siamo rivisti: si era completamente dimenticato di quell’incontro, cosa fantastica perché non ha nemmeno realizzato che cosa avesse fatto per me: mi aveva cambiato la vita.

E poi avete fatto quattro film insieme.

Sì, abbiamo finito per lavorare insieme quattro volte. Si ricorda Limitless? Io sognavo di lavorare con De Niro, e lui aveva accettato. Quando l’ho incontrato mio padre si era ammalato, hanno la stessa età e quando giravamo papà stava male. È morto tra le riprese di Limitless e quelle de Il lato positivo e penso che Il lato positivo sia probabilmente il motivo per cui io e Bob siamo diventati amici e gli voglio così bene. Perché, dopo che mio padre se ne è andato, ho potuto continuare a pronunciare spesso la parola “papà”, ed era Bob che chiamavo così.