Si potrebbe scrivere una Storia delle Misure Modeste. Alberto Moravia lo chiamava “lui” e c’è stato chi il suo “lui” l’ha mostrato in tribunale durante un processo per stupro, per obiettare che la faccenda non era stata poi così grave per la vittima. Ultimamente, però, nei tribunali succede che durante i processi per femminicidio gli avvocati si giochino una carta inedita, che sta lasciando di stucco le attiviste per i diritti delle donne. Per farla breve, cercano di usare come “attenuante” lo spiegare alla corte che la vittima ha innescato un raptus nell’imputato lamentandosi del suo pene piccolo. “È già la seconda volta, questa settimana, in cui leggo di uomini che come scusa per aver ucciso una donna spiegano di essere stati derisi per il loro pene troppo piccolo”, obietta da Twitter Karen Ingala Smith, attivista femminista e Ceo di Nia, un’organizzazione inglese che assiste le donne vittime di violenza domestica. Smith si riferisce al processo contro David Clark, un uomo di 49 anni di Birmigham, che ha ucciso la moglie perché questa avrebbe avuto una relazione saffica e lo disprezzava per il pene troppo piccolo. “Posso capire che per gli uomini le misure siano un argomento delicato, ma immaginate se le donne andassero in giro a uccidere uomini che si lamentano perché le nostre curve non soddisfano i loro standard”, ha detto. Karen Ingala Smith ha ragione, o noi donne non siamo in grado di capire quanto può essere “drammatico” per un uomo sentirsi insultare per le misure?

“Questa fissazione con le misure l’hanno inventata gli antichi romani, per i greci le misure ideali erano addirittura quelle adolescenziali”, spiega il professore Oscar Nicolaus, psicologo, psicoterapeuta e docente universitario di psicologia sociale della famiglia. “I romani hanno virilizzato tutto fino all’esasperazione quando invece, in terapia, molte donne mi confessano di non gradire le misure esagerate perché tutto dipende anche dalle proprie. Per questo ormai c’è poco da fare, ma intanto possiamo smettere di mitizzare il raptus, che non esiste. Certo, quando si sente offendere per questo genere di argomenti nell’uomo monta la rabbia. Ma qualsiasi tipo di insulto pesante, allora, dovrebbe sortire lo stesso effetto”. Secondo il professore, citare il raptus per giustificare ogni cosa fa sembrare che dilaghi un virus da cui vengono contagiati solo gli uomini. “Prendersela per una moglie che si lamenta delle misure del suo uomo è come ignorare che un tempo ci sia stata una relazione che è stata coronata da un matrimonio, che la donna fosse perfettamente a conoscenza delle misure del marito e che per qualche tempo le siano andate a genio. L’assassino questo lo sa”. Il professore spiega che ogni assassino, anche il più spietato, ha i suoi “buoni motivi” per uccidere qualcuno, per quanto sia aberrante pensarlo. O meglio, sono quelli che lui reputa buoni. “Ma l’ergastolo glielo danno lo stesso”.

Le leggi stesse, in fondo, sono il simbolo di ciò che la comunità vuole esprimere in quel determinato periodo storico. Come quando in Italia c’era la legge sul delitto d’onore, il famigerato art. 587 del codice penale che concedeva una pena irrisoria al femmincida, se era in grado di dimostrare che la vittima avevo leso la sua reputazione (e valeva anche per una sorella o una figlia sorprese in atteggiamenti equivoci). Nella realtà, secondo il professore, ogni scusa serve a negare la causa principale del femminicidio. “A uccidere la donna che si amava ci si arriva con un processo lento, individuale, che dipende molto anche dallo strato sociale dell’uomo o della coppia, e in cui contribuisce sempre una causa molto forte: la paura di rimanere solo. La gelosia c’è, è vero, ma non accettare la fine di una relazione è un rifiuto a elaborare un lutto vero e proprio”. Da adolescenti diventiamo grandi elaborando il lutto simbolico della madre, che non muore ma che a un certo punto della nostra vita non è più la persona da cui dipendiamo. La paura di essere lasciati dalla propria donna, per un uomo, rappresenta il rifiuto di tagliare il cordone ombelicale. “Gli avvocati ci provano, ovvio, è il loro lavoro”, conclude il professore, “Tutto sta a vedere se poi i giudici siano disposti ad abboccare che un insulto a un membro modesto possa essere una buona ragione per uccidere. Ed è molto improbabile”.