Annunciate da cinque o sei brevi vibrazioni del cellulare, questa mattina come sempre mi sono arrivate le notifiche di alcune news che seguo. Leggo distrattamente. Poi mi soffermo su un titolo:

A Simple #MeToo Guide for Looking at Women on the Street: Glancing Vs. Staring. Autore Mark Greene, un millennial esperto di relazioni familiari che scrive anche su Medium.

Un altro ennesimo, appello, a un anno dal #metoo a riconoscerci uomini aggressivi per natura, a correggerci, a cominciare a considerare davvero «anche soltanto il semplice, insistente e ricercato contatto visivo come una forma di aggressività sessuale che farà arrivare la donna intercettata per strada cattivissima al lavoro e quindi pronta per essere ulteriormente etichettata come arrampicatrice senza scrupoli». Più o meno questo è il succo. Mi incazzo, poi mi dico che ha ragione. Mi incazzo di nuovo, poi mi dico di nuovo che ha ragione. Dice che la gente a New York City si guarda così. Cioè, non è che non si guarda, si guarda e si elude. Fanno così anche gli animali, anche i più feroci dalle iene ai serpenti. Se non capiscono se sei una preda o un predatore, nel dubbio girano gli occhi.

Cioè la comunicazione che doveva passare, dice lo spettinato Mark, è già passata. Se c’era un interesse, non solo un’attrazione, sicuro che lo avresti già percepito. È quasi telepatia, coda degli occhi. Mi piace New York City, ma la prossima volta che ci andrò come farò a soddisfare quella fame visiva di sguardi, di look, di sorrisi, di risate sguaiate, di caffé bollenti da passeggio che si rovesciano sulle giacche tra il fumo dei tombini? Sarà difficile. Comunque non sarà più uguale a prima.

Ripartire da quello che sono oggi, mi dico allora. Un europeo, figlio di un’epoca nella quale quelli più grandi di te praticavano la libertà sessuale in un saltarsi addosso che se non era consensuale ti piazzava nella categoria retrogradi. E oggi sei retrogrado e machista se ti scappa l’occhio su un décolleté. Come me la sono raccontata in questi ultimi 30 anni da maggiorenne questa storia? E, visto che faccio il giornalista, come l’ho raccontata agli altri?

Quando 25 anni fa ho cominciato a scrivere di “costume”, come si diceva una volta (e di fatto non abbiamo ancora trovato una parola fighetta in inglese per tradurre il filone) uno dei miei maestri mi disse che per capire che cosa stava succedendo intorno a me dovevo concentrarmi sugli adesivi apposti dietro le automobili, sul baule. Erano messaggi che oggi si direbbero virali e recavano contenuti politici, ironici, religiosi, musicali. E sessuali. A volte brandizzati, perfino. Senza pudore con marchi di tabacco o liquori. Tanto erano tutti sponsor di qualche gara di Formula 1. In ogni caso esternavano il sempiterno bisogno di appartenere a una comunità, a un club, di distinguersi dall’uomo comune. Tipo: va bene ho una 127 special ma sono un figo perché ho l’adesivo del Nepentha disco club.

Oggi gli stimoli di costume non li cerchiamo nemmeno, sono loro a cercare noi. Tutti noi, non soltanto giornalisti. Ci cercano e ci trovano. Vanno a colpo sicuro. Per questo, adattandomi all’epoca chattona e sciattona che viviamo ho diversi gruppi di WhatsApp che mi aiutano a fare il cosiddetto fact checking, ovvero a capire se questi stimoli che arrivano a manetta hanno qualcosa di sensato e quali sono davvero le loro genesi e il loro sviluppo. Per cercare di renderne conto a lettrici e lettori.

Sono naturalmente all’interno anche di un gruppo fact checking molto maschile, molto spogliatoio, molto politically-incorrect-almeno-qui. Niente di che, sia chiaro, due biker commercialisti serissimi, un neurochirurgo che fa decathlon, un altro paio di giornalisti, qualche fotografo affermato, un barman quasi astemio, un agente di recupero crediti, un imprenditore edile esperto di arte contemporanea, un professore universitario sottopagato, il capo del settore casalinghi di un grosso centro commerciale. Brave persone, tra i 40 e i 50, integrati e un po’ apocalittici, ma brave persone, con dei figli le nevrosi da mutuo e i problemi con le badanti dei genitori. Amici che forse si sarebbero persi senza WhatsApp.

Butto l’esca e mi aspetto il tradizionale vaffanculo con sfottò e l’invito alla birretta delle 19 perché il Black Daiquiri di mezzanotte non si può più e ti fa fare troppo tardi. Invece la reazione è epidemica e immediata. Comincia uno, poi arrivano tutti gli altri: scatti rubati (da loro) di donne che camminano, da dietro, fondoschiena meravogliosi, incorniciati dagli shorts di moda, dettagli di piedi nudi molto sexy o di scarpe che se non sono state pensate per sedurre un uomo non si capisce il perché (noi maschi non lo capiamo, forse). Donne normali, più belle, meno belle, giovani, meno giovani, distratte, assorte, con gambe accavallate, sulle scale della metro, universi poetici di pensieri, nuvole di fascino che diventano pixel da condividere facilmente, in un crescente voyeurismo. Ovviamente inerte, perché non dà e non darà mai seguito a niente per fortuna con le persone fotografate. Innocenti incursioni romantiche di un eros sognatore, ci verrebbe da definirle con autoindulgenza. O così dovrebbe essere, si spera, per la maggiorparte dei maschi minimamente civilizzati. E allora mi incazzo di nuovo con Mark Greene, così fottutamente politicamente corretto, così saccente nella sua guida pedissequa.

Però poi mi dico, ancora, che ha ragione. Rubiamo dettagli di femmina, senza permesso, ci permettiamo di cogliere in un vestito un atto di seduzione, una nocciolina tentatrice. Fraintendiamo. Oddio saremo mica tutti stalker? In ultima analisi sbagliamo. Sempre. O no? Però ragazzi, qui a un anno dal #metoo sembra di impazzire. Lo dico soprattutto per chi, giovane adesso, è in piena tempesta ormonale e dotato di sistemi di monitoraggio spia da film di fantascienza. Se continua così dove andremo a finire, dicevano i nonni. Però credetemi data la mia mezza età e il mio stato di nulliparo sono abbastanza contento delle bassissime probabilità di diventare nonno. E per quanto riguarda le passeggiate sulla Quinta Strada, mi auguro che con il tempo, un certo acuirsi della cataratta mi consenta di non guardare più nessuno in faccia e godere degli altri piaceri newyorkesi, sapori, odori e brezze gelide. Sempre di sensualità si tratta.