Donne comprate, stuprate, vendute. Storie brutali che vengono lette, condivise, analizzate. Abbandonate. Voyeurismo crudele per le crudeltà subite da altri essere umani. E poi? Sul poi arriva Sudabeh Mortezai, regista premiata al Festival del Cinema di Venezia con il primo Hearst Film Award per il suo Joy, un viaggio durato tre anni tra le ragazze nigeriane costrette a prostituirsi nell’educatissima Vienna. Vienna, città d’adozione della regista iraniana che con occhi dolcissimi ha guardato (e poggiato la sua cinepresa) su altrettanti occhi dolci scavati da stanchezza, marchiati dalla speranza che, alla fine dell’ennesima prestazione sessuale, ci possa essere tutto quello che hanno sognato nelle baracche ai margini di Lagos. Ed è in quella speranza ai limiti dell'assurdo - il film risparmia poco - che Sudabeh Mortezai fa ritorno ogni volta per salvare le ragazze dai cliché tremendi del loro destino.

Perché hai deciso di raccontare le storie delle ragazze nigeriane tu, cresciuta tra Iran e Austria?
Ho incontrato molte ragazze nigeriane in Austria mentre stavo girando il mio film precedente, Macondo (del 2014 ndr), e ho davvero voluto lavorare con loro, era una cultura che mi affascinava e quando stavo studiando la cultura nigeriana ho trovato un libro sul traffico degli esseri umani in Nigeria, un lavoro incredibile realizzato da due ottime giornaliste austriache. È stato uno shock leggere di queste donne, le madame, che conducono il gioco di sottomissione verso altre donne. Questo è stato il motore che ha messo in moto tutto, è così che è nato Joy.

Hai avuto incubi durante le riprese?
Ne ho avuti, molti. Specie all’inizio. È stata dura affrontarli. Ci ho impiegato tre anni a realizzare il film e ho passato molto tempo a cercare di staccare la parte più emotiva e concentrarmi sul raccogliere storie nella loro interezza. Sembra impossibile ma poi intellettualizzi il processo, ti devi separare dal lato emotivo. Devi raccontare lucidamente.

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Non ti spaventa vivere in questa Austria in cui la nuova estrema destra sta crescendo, specie tra i Millennials?
Sono molto preoccupata per questo: ma è successo in tutta Europa, qualche Paese ha fatto eccezione, ma è una situazione complicata condivisa, oggi è facile mobilizzare sentimenti come l’odio, la rabbia.

Anche in Austria dove il benessere è tra i più alti d’Europa?
È imbarazzante parlarne, lo so. Sono nata in Germania da una famiglia iraniana, ma sono cresciuta in Iran e poi mi sono spostata in Austria. Quando sono andata in Nigeria per le mie ricerche sono riuscita a stupirmi di quanto in Europa fingiamo ancora di non accorgerci del privilegio che abbiamo. È folle: abbiamo tutto, specie in Austria, godiamo di un grande sistema sociale, anche le persone povere non sono davvero povere come in altri paesi europei. Eppure sono tutti così arrabbiati e terrorizzati dal perdere i loro privilegi: e per questo puntano il dito contro i migranti incolpandoli del nostro malessere. Come se loro portassero via la qualità della vita di queste persone.

Perché queste ragazze nigeriane vogliono comunque vivere in questo Paese che le incolpa e sfrutta allo stesso tempo?
Perché hanno un’idea sbagliata dell’Europa. Loro vivono vicino ma sono lontane anni luci dalle piccole élite nigeriane che mai verrebbero in Europa e mai lascerebbero le loro ville. La gente normale in Nigeria viene da situazioni drammatiche e non capisce quanto sia unwelcome l’Europa di oggi.

Che rapporto hanno queste ragazze quando anche in Europa, tra smartphone e notizie più facilmente reperibili, rimangono legate all’influenza del juju, il voodoo nigeriano?
Ha ancora un potere fortissimo su di loro: è una specie di religione. Anche i cattolici nigeriani sono comunque spaventati dal voodoo. Capelli, unghie, sangue: questi sono gli strumenti tribali, potentissimi, che vengono usati contro queste ragazze se si rifiutano di seguire gli accordi. Credono veramente che con il juju possano morire, essere dannate, perdere i loro cari.

Che rapporto hai creato con loro, a fine riprese?
Gli sono stata molto vicina. Credo ci sia una comune esperienza femminile, abbiamo un corpo simile, ci sentiamo vulnerabili nello stesso modo, abbiamo la stessa paura di essere stuprate. Che non significa vivere nel terrore di essere violentate, significa capire, sapere cosa può provare una donna che è stata violentata. Stare con loro, per me, ha significato anche vivere al completo il concetto di femminilità. Sono io, sei tu, siamo noi.

Qual è il nostro compito e la nostra colpa comune in questo traffico di esseri umani?
È un problema del sistema. E non è facile rompere questo sistema: è complesso. Il primo passo, per quanto rimanga difficile, è guardarle, sapere chi sono, bisogna osservare queste donne per quello che sono, non solo guardarle come vittime del mercato della prostituzione. Non sono solo mere statistiche, vorrei che chi guardasse Joy e poi ritrovasse una di quelle ragazze per strada la guardasse capendo che c’è una storia dietro a ognuna di loro, un sogno, un’ambizione.

Il prossimo viaggio cinematografico che intraprenderai?
Non lo so ancora. Ora abbiamo le diverse première di Joy (dopo Venezia il London film festival)e non so ancora pensare ad altro.