Quanta acqua è passata sotto i ponti, da quando indossavamo le maschere di cartoncino con il volto di Aung San Suu Kyi? Chi se lo aspettava che le cose sarebbero andate diversamente? Dopo la relazione delle Nazioni Unite secondo cui l’esercito birmano avrebbe portato avanti uccisioni di massa contro la popolazione Rohingya, anche Kumi Naidoo, il segretario generale di Amnesty International, ha scritto a San Suu Kyi per dirle che le è stato revocato il titolo di Ambasciatrice della coscienza, il premio più prestigioso assegnato dall’organizzazione in difesa dei diritti umani. La sua colpa è quella di non aver condannato l’azione militare, in molti avevano già invocato anche la revoca del Nobel per la pace che le era stato assegnato nel 1991. Ma i vertici della Fondazione svedese hanno risposto che, al tempo, il premio è stato pienamente meritato, e che comunque la somma ricevuta (circa un milione di dollari) Aung l’ha investita in opere per il sistema sanitario pubblico del suo popolo. La leader politica, che ricopre la carica di Consigliera di Stato della Birmania, Ministra degli Affari Esteri e Ministra dell'Ufficio del Presidente è una paladina dei diritti umani e della democrazia che non convince più? Non è più l’eroina per la quale il mondo protestava e manifestava quando il regime militare birmano prese il potere nel 1988 e la relegò agli arresti domiciliari?

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Aung San Suu Kyi in una foto del 1994


Aung San Suu Kyi, figlia di un generale assassinato dagli avversari politici e dell’ambasciatrice birmana in India, aveva lasciato il suo paese già da tempo, ma vi aveva fatto ritorno per assistere la madre gravemente malata. Da bambina, orfana di padre, aveva studiato in India a seguito della madre diplomatica, e poi a New York, dove dopo le lauree in Filosofia, Scienze Politiche ed Economia, aveva iniziato a lavorare per le Nazioni Unite. Lì si è sposata con un esperto di cultura tibetana, con cui ha avuto due figli, e ha iniziato a studiare la figura del Mahatma Gandhi e le sue teorie pacifiste. Mentre era in Birmania ad assistere la madre, ha fondato la Lega Nazionale per la Democrazia, un atto che le costò gli arresti domiciliari ordinati dal regime del generale Saw Maung. Non le vennero revocati nemmeno nel 1990, quando dalla prigionia ha vinto le elezioni e sarebbe dovuta diventare primo ministro, se il regime non avesse negato la legittimità delle elezioni. Da allora la prigionia di Aung San Suu Kyi, durante la quale continuava ad agire in difesa della democrazia, è proseguita fra varie vicissitudini e con continue condanne pretestuose per metterla a tacere, compresa una sentenza di tre anni ai lavori forzati poi commutata in altri arresti domiciliari. Intanto si susseguivano appelli del papa Giovanni Paolo II, dell’allora segretario delle Nazioni Unite Kofi Annan, ma non le fu permesso di lasciare il paese nemmeno per salutare il marito che stava morendo di cancro a New York, nel 1999.

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Maggio 2008: il ciclone Nargis colpisce la Birmania e il bungalow fatiscente in riva al lago in cui è relegata Aung San Suu Kyi perde il tetto e l'elettricità. Il suo rilascio arriverà solo più di due anni dopo, il 13 novembre 2010. Perché un’eroina così temprata ha commesso un passo falso così drastico? Secondo Amnesty International, nonostante a San Suu Kyi sia stata riconosciuta l’ascesa ai vertici del governo, il potere in questo paese è sempre in mano all’esercito, e lo usa come vuole. Mettersi contro le milizie, in questo caso per il massacro dei Rohingya, avrebbe significato per lei mettere a repentaglio i suoi ruoli istituzionali. Ma quello che Amnesty le contesta maggiormente è di aver addirittura minimizzato le azioni dell’esercito e di averne appoggiato le giustificazioni. Ad esempio, lo scorso giugno, la leader birmana ha dichiarato che i due giornalisti della Reuters arrestati nel 2017, Wa Lone e Kyaw Soe Oo, avevano violato i segreti di Stato, mentre dall’altra parte le associazioni umanitarie assicurano che i due stessero invece indagando proprio sulla questione Rohingya. La storia, o forse lei stessa, un giorno faranno chiarezza su cosa c’è dietro quello che in molti definiscono “il voltafaccia di Aung San Suu Kyi”. Nel frattempo, forse dovremmo cercare altri modelli di vita?

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