IL GIORNO IN CUI IL GIUDICE DOVEVA EMETTERE LA SENTENZA mi ero messo elegante. La cravatta no, perché in carcere non te la fanno tenere. Però avevo scelto il vestito migliore, come quando ti danno la laurea. Sapevo bene che cosa sarebbe successo. Ergastolo: questo avrebbero detto. Ero consapevole di ciò che mi aspettava, e anche che in aula mi avrebbero visto tutti là, dietro le sbarre, mentre ascoltavo fiero il verdetto senza mai abbassare gli occhi. Il massimo della pena, il massimo della riprovazione, quindi, per un camorrista, il massimo dell'onore. Avrei guardato in faccia mia moglie e le avrei fatto capire che non c'era da preoccuparsi, che c'era l'appello, che poi tanto qualcosa sarebbe successo, e che quello comunque era ciò che ero pronto ad affrontare. Mi ricambiò con uno sguardo di disperazione. Del mio vero mestiere non aveva mai saputo nulla e, accasciata sul banco, era a pezzi. Io no, io tenevo testa. Ero nella parte, un copione che in quell'aula era già stato rappresentato mille volte. Invece fu lì che accadde qualcosa. Qualcosa che incominciò a minare l'impalcatura su cui fino a quel momento si era appoggiata la personalità malavitosa che vanità, fragilità e ignoranza mi avevano tagliato addosso.

QUELLA SENTENZA DISPONEVA ANCHE ALTRO: nei miei calcoli avevo ignorato alcuni dettagli. Oltre alla reclusione a vita ci sarebbero state la pubblicazione della condanna in Comune, la cancellazione del mio nome dall'anagrafe, la perdita della patria potestà. Mentre ascoltavo quello che mi stava per capitare il primo contraccolpo lo ebbero i muscoli della schiena. Mi sembrò di accartocciarmi. Polverizzato. Battuto. Ecco che cosa era successo. Non avevo considerato le pene accessorie. L'eroe camorrista era stato annientato. Con quelle parole il giudice mi aveva cancellato, da uomo che ero sarei diventato un numero, un nulla. Inesistente per tutti, primi fra tutti i miei figli. Avevo sbagliato. Mai l'avrei ammesso, ma a quel punto era chiaro che la realtà aveva sfaccettature diverse. E io dovevo ingegnarmi a sopravvivere.

NON SONO QUI A RACCONTARE LA STORIA DI UN PENTIMENTO e nemmeno a pretendere il perdono. Io, Cosimo Rega, 62 anni, un ergastolo, due omicidi, vedove e orfani alle spalle, posso solo spiegare come comincia una risalita e che cosa, nella vita di un uomo dentro a un carcere, può rappresentare un'inversione e determinare una svolta. Che per me è arrivata quando lì, su un palcoscenico, ho scoperto il potere della parola e, mano a mano che imparavo a uscire dai miei panni, anche quello dell'arte. Avevo una licenza elementare e le ambizioni di un boss. Mi chiamavano Sumino o’ Falco, venivo da Angri, dalla cultura della camorra, dalla logica delle cosche, da un mondo senza bellezza dove non poteva esserci etica, però quando la sera della condanna tornai dai compagni di cella per festeggiare la consacrazione, dissi solo che il giudice aveva rimandato tutto a un'altra udienza. A un tratto non trovavo più nulla di cui vantarmi. Mentre li ricordavo benissimo, gli ergastolani. Li avevo osservati, a Porto Azzurro, a Pianosa. Perduti e imbruttiti dentro, l'anima piallata dalla clausura. Non volevo vedermi così, ma nel reparto di alta sicurezza l'unica prospettiva sarebbe stata sprofondare ancora. E allora tentai la ribellione.

CON LO SCIOPERO DELLA FAME ARRIVAI A PERDERE 18 CHILI. Mi sentivo schiacciato. Contestavo un sistema che mi stava calpestando, eppure sapevo che non era la soluzione. E che dopo un passato di tentativi di rivolta e di evasione, non potevo che ripartire da me. Del resto, lo dovevo a mia moglie. Tornato in cella, il giorno del verdetto ero andato a letto presto, senza riuscire a chiudere occhio. Quella notte decisi che era arrivato il momento di raccontare a lei e ai figli la verità. Attesi una settimana prima di farli venire. Volevo trovare il modo di incontrarli a tu per tu. Quando arrivarono li feci sedere, poi spiegai tutto: ero colpevole. Poco importava che cosa dicevano gli avvocati; quell'ergastolo era la conseguenza dei crimini che avevo commesso. E non volevo sconti. Fu una nuova sconfitta. I ragazzi li avvertii subito disorientati, lontani. La risposta di lei, invece, anche dopo anni ha continuato a darmi la linea, soprattutto nei momenti più duri. Disse: «Non sarà un muro di cinta a dividere la nostra famiglia. Rimbocchiamoci le maniche». Incominciai con un corso di informatica, e poi attaccai con il telelavoro, una conquista: avere un'occupazione, dentro, era morire di meno. Finché un giorno mi proposero una piccola parte in un Antigone che andava in scena a Rebibbia. Perché no, pensai. Ogni opportunità per uscire di cella era buona. Invece scoprii una passione.

AVEVO SEMPRE AMATO EDUARDO, così anche il teatro mi sembrò una soluzione, e misi insieme una compagnia. Partimmo in una decina, con le commedie di De Filippo. Provavamo all'aperto, nell'area del passeggio, dove poi girammo con i fratelli Taviani alcune scene di Cesare deve morire. Alla fine eravamo una trentina, con spettacoli che portavano in carcere anche due o tremila persone. Il capocomico ero io. Sumino o' Falco aveva trovato un nuovo palcoscenico. I primi tempi avevo bisogno soprattutto di quello, dimostrare agli altri e a me stesso che io c'ero, continuavo a esistere. Poi capii che il teatro mi stava restituendo il senso della parola, mi stava cambiando la testa, mi stava portando altri mondi, e una libertà che l'ex ragazzo ignorante di Angri non avrebbe saputo immaginare. Un giorno venne a trovarci Isabella, la moglie di Eduardo. Arrivò con i suoi 80 anni, la sua eleganza e il suo bastone. L'aria profumava ancora di detersivo. Per non farle sentire odore di prigione avevamo passato ore a lavare. Fu così entusiasta che ci regalò La tempesta di Shakespeare tradotta dal marito in dialetto napoletano, perché noi la portassimo in scena.

COME LEI TANTE PERSONE, ANCHE ADESSO, quando vado in università e scuole, vengono da me per dirmi la loro stima. Ma io, come succede sempre, dopo ogni spettacolo, poi non ci dormo la notte. Sumino o' Falco non esiste più. Non è più lui a cercare i riflettori; al suo posto ora c'è un ex camorrista che vuole fare teatro. Ma che cosa merita? E di cosa è degno? L'ultimo passo per ritrovare il vero me stesso l'ho fatto con Shakespeare e l'Amleto. Ce l'aveva affidato un regista. A me sarebbe toccato Re Claudio, ma io non lo volevo fare, e rifiutai. Fu allora che dovetti scontare due mesi di isolamento. Camminavo da solo nel cortile del passeggio finché un giorno - pioveva - capii che cosa c'era tra me e il re di Danimarca. Era lui l'assassino di Amleto. E con lui avrei dovuto recitare me stesso. Così accettai, e forse fu lì che dissi definitivamente addio a Sumino.

IO NON LO SO QUANTO SERVA IL PERDONO. Forse solo a nascondere la polvere sotto al tappeto. Spesso mi chiedo, e non so trovare risposte, se quel delinquente sia mai esistito davvero. Ma le colpe non si cancellano, e il rimorso per le atrocità che hai commesso ti rimane incagliato dentro. Vengono da me per dirmi bravo, ce l'hai fatta, sei guarito. Ma adesso non è più come quel giorno al processo. Vorrei accoglierli tutti mettendo indosso l'abito buono. Ma non ce l'ho nel cassetto. «Tengo o core nire nire, comme a morte», dice Re Claudio. Ho il cuore nero, come la morte. E mi serve misericordia, più che perdono.

Cosimo Rega ha recitato con la sua compagnia in "Cesare deve morire", dei fratelli Taviani, Orso d'oro al Festival di Berlino 2012, e ha raccontato la sua storia in un libro, "Sumino o' Falco" (Robin Edizioni). Vive in carcere e ha in preparazione nuovi spettacoli, un libro di racconti, un testo teatrale, la laurea in Scienza del teatro.