Sui giornali avevo letto che era timido. In realtà Nathaniel Rich è solo uno che ancora fatica a prendersi sul serio. Uno che a 26 anni scopre di essere uno scrittore vero e a 29 si ritrova «la nuova promessa della letteratura americana», senza nemmeno troppa voglia di affrontare tutte le cose che toccano alle persone di successo. Dalle interviste l’avrei detto schivo al punto da sembrare goffo. Del resto, che altro si poteva pensare di un tipo che, terminata la stesura del suo primo romanzo, non trova niente di meglio da fare che tapparsi in una stanza e «scuotersi felice come un pennuto al sole», in una specie di rituale della vittoria battezzato nell’occasione The Lazy Seagull Dance (La Danza del Gabbiano Pigro)?

Quello che mi ritrovo davanti invece è un ragazzo per niente impacciato. L’unica cosa che Rich sembra aver difficoltà a gestire è una solida zazzera di capelli neri, dove quando pensa affonda continuamente le dita, quasi lo aiutasse a pescare lì in mezzo la parola più azzeccata. «Non mi sono mai sentito capace di fare tanti discorsi», dice come se non si sentisse poi così sicuro di riuscire a spiegarsi del tutto.

Ma per un americano che ha studiato otto anni latino e parla italiano, francese e anche qualcosa di spagnolo, niente potrebbe sembrare meno vero. Una laurea a Yale e un pedigree di tutto rispetto (il padre Frank è uno degli opinionisti di punta del New York Times, il fratello minore Simon un autore satirico del Saturday Night Live e del New Yorker e, anche se la nonna ha divorziato da un signore di cognome Foer, Jonathan Safran è stato in qualche modo del clan), Nathaniel ha tutto per confermarsi il portento che secondo lo scrittore Gary Shteyngart potrebbe essere capace di sferrare un «calcio nel sedere alla letteratura» per far entrare un po' di aria nuova.

Lui però, candidamente, ci va cauto. Come un affabulatore pentito, ha scelto di mettersi in ascolto piuttosto che parlare. E come i personaggi del suo libro d’esordio, La voce del sindaco (Neri Pozza, 17 euro), preferisce acchiappare sogni piuttosto che pretendere di fabbricare verità. Così, incassati gli onori tributati dall’intellighenzia Usa, Nathaniel ha deciso di partire e se ne è venuto qui, sul lago di Como, a fare quello che a lui sembra più opportuno per uno scrittore vero. Tacere. Guardare. Pensare. Scrivere.

Non c’entra che Clooney abbia in zona il suo buen retiro: quando indago in proposito incasso soltanto un sorriso che sfuma in uno scorato no comment. No, non ha mai visto né George né la sua casa di Laglio, non è stato questo a spingerlo a cercare qui una pausa. L’ Italia che gli appartiene non si incrocia con Hollywood e comincia da Trieste, dove ha vissuto e ambientato il romanzo; tocca Milano, dove sette anni fa, prima di lavorare alla Paris Review di New York, ha fatto uno stage in una casa editrice; approda a Villa Serbelloni, a Bellagio, ospite della Fondazione Rockefeller per scrivere il secondo libro.

Pullover rosso e sneaker cobalto, Rich mi accompagna per i vialetti della tenuta in cerca del punto dove si osserva meglio il lago. Sulle montagne davanti a noi si vede ancora qualche traccia di neve. Il cielo è terso e c’è molto sole. Esagerando un po’, azzarda una di quelle espressioni che, come il suono della doppia zeta di spazzolino e della doppia erre di Ferrara - dice - gli rendono ancora più dolci l’Italia e gli italiani. «Fa un caldo della madonna», mi ripete scandendo una a una le parole.

Non so perché ma ho voglia di chiedergli se questo paradiso a volte non gli venga a noia. Quando ha scritto La voce del sindaco, un racconto stralunato su magie e delusioni del linguaggio e dell’amore, per timore di non essere capace di portare a termine quella fantastica «matrioska di storie» (parole di Stephen King, idolo della sua infanzia e adesso uno dei suoi primi fan) si è sequestrato davanti a una tastiera e non ne ha fatto parola con nessuno per anni. Adesso però è diverso. Le paure se ne sono andate e l’ex Gabbiano Pigro ha preso il volo. Lui non risponde alla provocazione, ride, ma si capisce che ha voglia di spiegarsi.

Quando ha deciso che la cosa migliore nella vita era scrivere?
È stato a nove anni, la prima volta che ho avuto paura. Fino ad allora avevo soltanto letto racconti per bambini. Poi ho scoperto i thriller di Stephen King e qualcosa ha fatto click nel cervello. A quell’età ci sono pochi sentimenti che capisci meglio della paura. I suoi libri erano tutto un altro mondo rispetto a quello che conoscevo. E letteralmente mi terrorizzavano. Mi hanno insegnato il potere della letteratura. Se bastavano le parole a dare emozioni così forti, allora era scrivere quello che dovevo fare.

E la paura funziona anche quando non c’è l’ispirazione?
No, in quel caso ho altri metodi. Mi faccio di salsa piccante e spremuta di limone. Adoro il Tabasco, i sapori forti sono una sfida. Mi danno quella scossa che mi rimette in moto. Però anche l’espresso funziona alla grande. Perciò in Italia va da dio. Invece, a New York, per non farmi mancare niente mi sono procurato una Bialetti.

Ma ci sarà qualcosa che non sopporta di questo Paese...
Berlusconi, e l’eccesso di burocrazia. Mi spiace anche che, a quanto pare, qui la gente legga poco. Per il resto, dell’Italia mi appassiona tutto.

La creatività dipende dai posti?
Io ho bisogno di trovarmi in un Paese dove si parla un’altra lingua. Così sei davvero solo con te stesso, obbligato a guardarti dentro e a entrare nella testa degli altri per capire cosa dicono e cosa pensano. Empatia significa osservare il mondo con occhi diversi dai tuoi. Serve, per scrivere. È una delle più grandi qualità che si possano avere. Quando mi trovavo a Trieste - al Festival dell’Esperanto - passavo tanto di quel tempo senza scambiare parola che a un certo punto mi sono messo a parlare da solo. È così che mi è scattata una voce dentro e ho cominciato La voce del sindaco. Sentivo l’italiano, il tedesco, lo sloveno, il triestino. In certi punti del Carso non sembrava nemmeno di essere in Italia: una fantastica terra di nessuno. Tutto era un incrociarsi di significati e di linguaggi, quello che è poi diventato il tema centrale del libro.

In America invece come ci si sente?
Adesso benissimo. Fino a qualche mese fa non sarei riuscito a dire lo stesso. Nonostante la crisi, sono ottimista come mai prima. Ho partecipato alla campagna di Obama. Con due amici siamo partiti da Brooklyn per la Virginia. Dovevamo fare un lavoro porta a porta, quella non era certo una tipica roccaforte democratica. Andavamo nelle comunità africane povere, per convincere la gente a iscriversi nelle liste elettorali e votare: molti non lo avevano mai fatto. È stato emozionante. Per noi. Per loro. Ora c’è un gran senso di attesa, è un momento stranamente positivo.

Che significa crescere in una famiglia di intellettuali a Manhattan? Chi veniva a cena da voi il sabato sera?
Amici di famiglia, non necessariamente degli intellettuali. Noi ragazzi ce ne stavamo in camera a guardare la tivù. A casa si parlava di tutto, di libri, di cinema, di politica, ma noi non ci mescolavamo molto con gli adulti. Quando ero piccolo mio padre era critico teatrale e faceva attenzione a non coltivare amicizie nell’ambiente, gli serviva per non farsi condizionare. Quando non era a teatro, spesso doveva scrivere. I miei non hanno mai fatto grande vita sociale.

I ricordi migliori?
Le partite di baseball, i pomeriggi in strada a giocare con gli amici, le gite in canoa, le nostre estati nel Maine. Facevamo una vita molto normale.

Chi le ha insegnato di più nella vita?
I miei genitori, i nonni, qualche professore. Poi i libri, i film.

Per esempio?
Ho sempre letto di più i classici, per cui direi Mikhail Bulgakov, Flann O’Brien, Italo Calvino, Italo Svevo. Anche il cinema mi ha influenzato molto. Volevo ambientare il libro in una terra di mezzo tra realtà e fantasia, e mi veniva spontaneo pensare alle storie di David Linch. Ma ho imparato molto anche dai fratelli Coen, Pasolini, Herzog, i miei preferiti.

Il miglior consiglio che ha avuto?
Da mia madre, quando mi ha detto di non andare mai a vivere con una donna prima di averla sposata. Sperimentato: aveva ragione. Se non hai un anello al dito ci sono tensioni alle quali non ti sforzi mai di cercare una soluzione seria. Dopodiché, è vero ciò che sostiene mio padre: perché una convivenza funzioni, sempre meglio avere bagni separati. Consigli per il lavoro, non direi. A casa hanno potuto leggere il mio romanzo solo quando era già pronto. Il più grosso aiuto che ho avuto dai miei sono stati la fiducia e l’incoraggiamento costante.

Un libro che non avrebbe mai voluto finire di leggere?
Il maestro e Margherita di Bulgakov.

E uno che invece non è mai riuscito a terminare?
Ritratto di signora di Henry James.

Qual è l’argomento più difficile da raccontare?
I sogni e il sesso. È difficile scendere nei dettagli di una scena hard senza finire nel ridicolo.

C’è un filo rosso che unisce gli scrittori americani della sua generazione?
No, non mi sembra. Un problema comune ai giovani è sempre fare qualcosa di diverso da chi li ha preceduti, non sentirsi schiacciati da ciò che di buono è stato fatto prima. Io amo Zadie Smith, Gary Shteyngart, Colum McCann. Mi piacciono quelli che cercano di lavorare su un linguaggio nuovo, e non ce ne sono molti.

Chi butterebbe giù dalla torre, Philip Roth o Paul Auster?
Nessuno dei due, mi piacciono entrambi. Se però dovessi proprio scegliere terrei Auster, lo sento più vicino alla mia sensibilità.

E tra Martin Amis e Ian McEwan?
Salverei Amis, per gli stessi motivi.

Una cosa di cui ha paura?
Di non riuscire a realizzare i miei sogni.

La sua più grande soddisfazione?
Il mio romanzo. Scrivere è il modo migliore per dare senso ai miei pensieri. Non mi sono mai sentito abile a parlare. Già così è frustrante con gli amici e con le ragazze, figuriamoci poi nelle interviste. Del resto, lo so benissimo: solo quelli veramente famosi possono permettersi il lusso di vedere prima le domande.