LA RICORDO ANCORA COSì Giovanna, come me l’ero vista davanti un giorno, dopo una brutta caduta, una bambina con le gambette magre stesa su un lettino d’ospedale, il colorito irragionevolmente pallido nella luce bianca dell’ambulatorio e un taglio che sanguinava sul collo. Lei stava lì, in silenzio, immobile, con le lacrime che le luccicavano negli occhi ma senza nemmeno una smorfia. E soprattutto senza un singhiozzo. Giovanna coraggiosa, irrigidita dal dolore ma rassegnata a essere forte. Destinata da sempre a comportarsi da adulta.

Giovanna se n’è andata tre anni fa, condannata a morte da un carcinoma. Questa volta di anni ne aveva 37, ma mentre la guardavo stare lì, tenace, paziente, inchiodata in un letto dal quale non si sarebbe più potuta alzare, rivedevo lo stesso soldatino ostinato di allora. Solo che in più adesso aveva anche imparato a sorridere. Qualcuno, dopo, mi ha detto che quelli che stanno per morire in realtà sono quelli che ci insegnano a vivere. E io per questo adesso ogni giorno mi sforzo di ricordare. Per questo voglio raccontare com’è andata, ma soprattutto com’è finita la sua storia.

Per parlare della “dolce morte” che ha permesso a mia figlia di addormentarsi senza sofferenze. E di una dolorosa, struggente cerimonia di addio che ha reso più lieve il distacco e più dignitosa la fine. Quasi che lei, inaspettatamente libera dal dolore, per qualche giorno, per qualche ora almeno, fosse riuscita a tornare nella sua pelle e a sentirsi incontaminata, intatta, come se per assurdo non ci fosse mai stato o non ci fosse più nulla da temere, e come se andarsene costasse meno fatica.

A VOLTE PENSO CHE SE C'é UN DESTINO, il suo fosse quello di mostrare come la leggerezza possa diventare un’immensa lezione di rigore, di umiltà, di tenerissima forza. «Life is short, but sweet for certain». Sono le parole di una canzone, le aveva scritte Giovanna nel diario in cui annotava in segreto la cronaca della sua malattia. Non mi stupisce, adesso, che avesse scelto proprio quella frase per parlare di sé e di quella sua strana, coraggiosa agonia. «La vita è breve, ma dolce per alcuni». Eppure non era stata dolce, non era stata lieve con lei. O almeno non a cominciare dal giorno in cui l’incubo aveva preso forma, un’incomprensibile partenza verso il nulla che nella mia testa ha la straziante fissità di un pomeriggio assolato di agosto.

Era arrivata in campagna da noi per passare un po’ di tempo nella casa nel Chianti, dove si andava per stare con gli amici, per cucinare, per le serate di chiacchiere tutti intorno a una tavola. Doveva arrivare con una risposta, non stava bene, aveva avuto bisogno di controlli. A un certo punto mi ha presa da parte, in cucina, mi ha gettato le braccia al collo e me l’ha detto. Non c’erano più dubbi. I disturbi che subito aveva attribuito a celiachia erano invece i sintomi di un cancro, un carcinoma al retto. È stata l’unica occasione in cui l’ho vista piangere. Anzi, proprio come quella volta quando era bambina, di colpo gli occhi le si sono inondati di lacrime. Ma è stato un lampo, pochi istanti appena, giusto il tempo di guardare in faccia la nuova realtà e raddrizzare la schiena. Poi si è precipitata a frugare in borsetta, il fazzoletto, due gocce di collirio ed era finita. Giovanna aveva capito, aveva già voltato pagina.

MI SONO CHIESTA SPESSO, a quell’età, con un tumore in corpo, che cosa ci si aspetti dalla vita. Dei veri pensieri di mia figlia non ho potuto sapere nulla fino a quando è morta, perché ogni momento che ha passato con noi, anche dopo le operazioni, le ricadute, le terapie, e poi durante il periodo di immobilità progressiva, il periodo delle urla, del dolore, quello che faceva e diceva parlava sempre e solo di vita. Quando ormai era chiaro che non c’era più nulla da fare e le metastasi le avevano spezzato una vertebra impedendole qualsiasi movimento che non fosse strisciare sulle lenzuola, tutti i giorni mi chiedeva di comprarle il giornale, tutti giorni ricamava, si truccava, si vestiva per ricevere ospiti.

E leggeva, leggeva, leggeva. Fingeva di leggere. Solo dopo, riordinando le sue cose, ho scoperto che in tutte quelle settimane il libro preferito era sempre rimasto aperto sulla stessa pagina. La paura - ma conoscendola direi piuttosto lo sgomento - di vedersi costretta a rosicchiare senza speranza gli scampoli di un’esistenza insensata che ormai non le assomigliava per nulla, lei li aveva buttati dentro la memoria di un computer, trasferiti su un dischetto che aveva affidato al marito della sorella, proibendogli di leggerlo o di farcelo avere prima che se ne fosse andata. Anche se lo avesse voluto, Giovanna non era in condizione di farsi sconti.

BIOLOGA, DA UN PAIO D'ANNI AVEVA LASCIATO FIRENZE per Parigi. Impegnata nella ricerca sul cancro. «Ho scoperto che la malattia era in stadio avanzato a un’età inimmaginabile anche per il più pessimista degli ipocondriaci. Tanto è difficile alzarmi la mattina, che certi giorni mi pare inutile persino continuare la commedia. Il mestiere me lo insegna: non posso farmi troppe illusioni. Poi però penso che tutto sommato anche la commedia sia utile. Vedere le persone intorno a me così piene di speranze, felici degli scarsi effetti delle nuove cure, mi rende le cose più facili e addirittura piacevoli. Ci si può domandare che cosa si provi a portarsi addosso “un male incurabile”. Io posso solo dire che per me la disperazione è durata inspiegabilmente poco». Ed era quello, penso ora, che la aiutava, che mi aiutava. Io ero stordita, attonita, mortificata. Lei motivata. Io, che sono credente, ho avuto tanti dubbi. Lei, che aveva fede nella vita, era incrollabile. Era decisa.

A Parigi ci era andata per dare una svolta alla vita. Aveva vinto una borsa di studio, però la ragione vera me l’ha detta solo al telefono quando già era partita. Con Massimiliano, il marito, l’amico, il compagno di università, ormai era cosa finita. Conoscevo mia figlia, guardava avanti, cercava un modo concreto per ricominciare davvero. E infatti aveva ricominciato, quasi da zero: il nuovo lavoro, la nuova città, l’amore con un collega di laboratorio. Fino a che non è scoppiata la bomba. La disperazione in effetti per lei era durata incomprensibilmente poco. Alla disperazione non c’era stato tempo di concedere tempo.

QUANDO ABBIAMO CAPITO CHE COSA STAVA SUCCEDENDO, aveva già una metastasi al fegato. Nel 1999 c’è stata la prima operazione. Poi un’altra. Poi una lunga pausa, che pareva la salvezza. Poi, nel 2001, è stata la volta della metastasi ai polmoni. Ma alla disperazione davvero non c’era modo di dare spazio. Giovanna era tornata a Parigi, lavorava, era in chemioterapia ma dei colleghi nessuno sapeva. Si era appesa una bottiglietta sotto il camice e intanto i farmaci goccia a goccia continuavano ad agire.

Mentre io provavo di tutto, dai consulti medici alle benedizioni dei preti, lei come sempre non aveva nessuna voglia di arrendersi: c’eravamo noi, c’era il suo humour, c’era la sua immensa voglia di vita, che è molto più di un semplice istinto di sopravvivenza. C’era che a piegarla non poteva bastare la certezza che tanto non sarebbe durata. A piegarla, o meglio a fermarla, ma anche quello soltanto per poco, ci si sarebbe messo il dolore.

C’è stato un momento in cui l’unico vero problema sembrava essere quello. Dopo il rientro forzato a Firenze, dove per un po’ caparbiamente aveva continuato a frequentare il laboratorio, ormai Giovanna non usciva più di casa. Si muoveva a stento. Aveva una vertebra rotta ma rioperarla era impossibile, perché la metastasi questa volta si trovava vicino all’aorta. Ogni tanto si alzava dal letto, ma in piedi aveva un’autonomia limitata. Insisteva ad aggiustarsi, a farsi bella; ogni due giorni si lavava i capelli da sola e dalla doccia, a me che da fuori sorvegliavo ogni rumore, continuava a gridare che sì, che aveva finito, che andava tutto bene. Ma il disagio con il tempo si faceva più forte e anche il male aumentava.

Vicino al letto adesso c’era sempre una carrozzella. Inutile, perché a ogni movimento lei urlava, per troppo dolore. Fino a quando siamo riusciti a convincerla. Per darle un po’ di quiete non restavano che le cure palliative, quelle destinate ad alleviare le sofferenze di chi sta per morire. Il presupposto è interrompere del tutto i trattamenti che potrebbero allungare ma non più salvare la vita, peggiorandone solo la qualità. Era una decisione dura da prendere, ma l’ultima carta era lasciarla andare in modo indolore, consegnarla al sonno profondo che conduce alla morte. Lei non si rassegnava, ma un amico ha insistito a spiegarle. Non ho mai saputo che cosa si siano detti. Si sono chiusi in stanza da soli e lui ne è uscito con un sì.

ABBIAMO INTERROTTO LE CURE, ed è stato quello il momento migliore. Ci tengo a dire che sebbene ora questa sia solo una storia di lutto, gli ultimi giorni con Gio invece sono stati un percorso di vita. Senza il martirio dei farmaci era sgonfiata, il viso era tornato quello di sempre, di una bellezza immutata. Lei parlava, sorrideva, scherzava. E lentamente scivolava nel sonno. I medici venivano anche tre volte al giorno e intanto la casa si riempiva di fiori e di gente. Arrivavano amici, vicini, colleghi, per vegliare il suo addio. Il dottore diceva che era il modo migliore per accompagnarla. In camera sua si prendeva il tè, io intanto preparavo le torte. Ero sempre in cucina, così quando lei si svegliava trovava pronto qualcosa di buono.

Non ricordo che qualcuno piangesse. Era la nostra ultima festa e le chiacchiere che le facevamo intorno erano come nelle sere in campagna, intime, dolci, sommesse, un coro di voci che riempivano il buio e tenevano accesa una fiammella di vita. Tre giorni prima dell’ultimo, aveva voluto fare il riflessante ai capelli. Con le sue sorelle ci eravamo messe ai piedi del letto, una teneva una bacinella, l’altra le sollevava la testa. Spostarla era stata un’immensa fatica. Ma lei dopo era magnifica e noi abbiamo potuto ricordarla così. Se n’è andata che eravamo tutti intorno a tavola. Non abbiamo potuto dirci nulla. Ma lei sorrideva.