C’è stato un tempo in cui le guerre venivano interrotte per dare inizio alle Olimpiadi e c’è un presente in cui lo sport a volte (anzi, spesso) le guerre - e le guerriglie - le scatena. Il 16 gennaio 2019 a Jeddeh, in Arabia Saudita, si disputa la finale di Supercoppa 2019 fra Juventus e Milan e sta suscitando indignazione la notizia che alle donne l’accesso allo stadio verrà consentito solo nel settore famiglie. Non è esattamente, come pensa qualcuno, che la finale di Supercoppa sia vietata alle donne, possono entrare accompagnate da un uomo di famiglia mentre gli uomini accedono anche da soli in un altro settore. Giustamente, molte entità che lottano per la parità di genere stanno facendo le loro sacrosante proteste e chiedono alla Federazione Calcio Italiana perché ha accettato di disputare questa partita in una nazione che non rispetta la parità di genere. Un cinico potrebbe rispondere “perché, in Italia viene rispettata?” e non avrebbe poi tutti i torti, ma per il momento lasciamo da parte le disparità di retribuzione, lo sbarramento verso le posizioni di potere e tante altre delizie con cui noi donne italiane abbiamo a che fare quotidianamente. Focalizziamoci invece su una curiosità: perché a protestare non sono le donne musulmane in Italia? Qualcuno sta tappando loro la bocca?

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A farlo notare è il blogger marocchino Soufiane Malouni, molto popolare nella comunità islamica italiana per le posizioni progressiste e per l’impegno quotidiano nello smentire sui social i luoghi comuni e le false convinzioni sulla religione musulmana (in occasione dell’attentato di Bruxelles del 2016 scrisse per MarieClaire.it un articolo in cui dimostrava in dieci punti perché un militante dell’Isis non è considerato musulmano dai veri musulmani). “Sulla stampa e i tg in lingua araba non c’è traccia di questa polemica”, spiega Soufiane, “a parte un sito di calcio che la ribatte prendendo come fonte La Stampa, né Al Jazeera, né Al Arabia ne parlano”. La prima cosa da pensare è che sia in atto una forma di censura per non rovinare l’evento e il business al quale è legato. Ma Soufiane non è convinto: “Fino al gennaio 2018 le donne, in Arabia Saudita, non potevano mettere piede nello stadio, nemmeno nel settore family”, spiega. “Ora fanno anche il servizio di sicurezza all’ingresso (come si vede nella foto sotto da Instagram, ndr). Stiamo parlando di uno stato dove la separazione dei sessi viene praticata nelle scuole, negli uffici pubblici. È una cultura discriminatoria, indubbiamente, ma che sta cambiando”. Certo, non è una giustificazione. Ma il pensiero va subito all’abolizione del capofamiglia – padre padrone in Italia fino al 1975 –, al delitto d’onore e al matrimonio riparatore aboliti nel 1981, o alla violenza sessuale che fino al 1996 era considerata atti osceni e non delitto contro la persona. La marcia verso la parità di genere necessita per forza di passi lenti?

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Ne abbiamo parlato con Sanaa Tabet, 29 anni, Italo-marocchina, bibliotecaria e laureanda in lingue, letterature e culture artistiche europee, ex presidente e attuale socia dell’associazione Giovani Musulmani di Firenze, grande promotrice di gender equality a tutti i livelli, di parità politica, sociale ed economica tra i sessi, convinta che donne e uomini abbiano stessi diritti e doveri l’uno verso l’altro. Insomma, un’esponente della comunità islamica italiana, una voce ascoltata anche dagli uomini. Sanaa Tabet spiega perché la presenza delle donne nella tribuna family non sta indignando le musulmane in Italia quanto le altre. “Come ben sappiamo”, spiega Tabet, “questo paese ha dato il via libera al pubblico femminile solo un anno fa, ha visto cadere questo tabù a gennaio 2018 dopo aver dato il permesso di guida. Ovvio, non dobbiamo accontentarci del poco, ma è un gran passo e sa un po’ di rivoluzione se pensiamo che nel paese stesso alle donne non è ancora concesso aprire un conto in banca. Ovviamente", prosegue "ci auspichiamo una grande parità a tutti i livelli e di vedere le donne parte integrante della società così come lo sono gli uomini e come accade già, e da anni, nel resto del mondo arabo e islamico. Nei paesi come Marocco, Egitto, Tunisia, Giordania le donne sono libere di assistere pubblicamente a qualsiasi iniziativa, anzi, in alcuni stadi troviamo più tifose che tifosi perché la passione non conosce differenza di genere, è la lingua che accomuna tutti”. Protestare, quindi, è sempre giusto, ma non bisogna stupirsi se le dirette interessate non partecipano a questa protesta perché la percepiscono con un altro punto di vista. “Voglio aggiungere un'ultima cosa”, conclude Sanaa Tabet, “in alcune parti del mondo sembra che la gender equality sia un percorso lungo che vorremmo brevissimo: speriamo che chi ha la responsabilità di governo o qualsiasi istituzione governativa di un paese si dia da fare".