Si prospetta un altro anno favoloso per Helen Mirren, dopo i 70 anni compiuti nel 2015, infatti, si prepara a uscire con due film nel 2016, L'ultima parola - La vera storia di Dalton Trumbo (per questo ruolo ha da poco ricevuto una candidatura ai Golden Globes) e Eye in the sky. Nella nostra intervista scopriamo che non censura le parolacce e ha finalmente sfruttato la sua formazione da insegnante diventando mentore di giovani registi. Esperienza formativa e felice per entrambe le parti in gioco.

Tutti hanno una cotta per Helen Mirren, soprattutto i giornalisti. Questa splendida 70enne vive oltre la nostra dimensione, in un luogo mitico al quale aspiriamo, dove si è persone perfettamente risolte e nulla riesce a scalfirci. Tutti vogliamo essere Helen Mirren. Nessuno resiste ai suoi occhi cristallini né al calibrato atteggiamento di spontaneità che include lo sfoderare qualche parolaccia per avvicinare l’interlocutore. Lei risulta “alla mano”, dove il turpiloquio tra noi mortali è solo volgare. Anche quando la incontro in un cinema di Londra si lascia sfuggire uno «shit and piss» di fronte alla platea divertita. È qui in veste di ambasciatrice del progetto Films of City Frames, come mentore per i giovani registi di 4 cortometraggi sostenuti da Giorgio Armani, in collaborazione con Luxottica e Rai Cinema.

Il premio Oscar per The Queen e Dama dell’Ordine dell’Impero Britannico non si è mai censurata. In un’intervista televisiva del 1975 prese in scacco il conduttore che insinuava come i «suoi attributi» rischiassero di precluderle una carriera da attrice rispettabile («Sta dicendo che una con un seno abbondante non può essere considerata un’attrice seria?»). Di recente, parlando con The Hollywood Reporter, ha incoraggiato la collega Jennifer Lawrence a dimenticarsi le buone maniere riguardo la faccenda del divario di compensi tra attori e attrici, su cui la Lawrence ha scritto una lettera aperta: «Capisco quando dici che volevi comunque apparire gentile. Ma è il momento di smetterla. Se avessi una figlia, che non ho, la prima parola che le insegnerei è “fuck off”». Non le dispiace chiamarsi femminista perché «it’s just fucking obvious», ma quando le chiedono se al cinema vorrebbe più personaggi femminili ai vertici risponde che cerchiamo il cambiamento nel posto sbagliato: «Quando muteranno i ruoli per le donne nella società, allora li vedremo nei film», ha detto a Tina Brown. Esempio perfetto è la serie Prime Suspect del 1991 (sì, Helen girava serie tv ai tempi in cui non era ancora cool), in cui interpreta un’ispettrice negli anni in cui le investigatrici iniziavano carriere nella polizia.

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Il premio Oscar Helen Mirren.

La serenità di Helen ci avvolge dopo la proiezione dei corti di Films of City Frames: l’abito indaco sottolinea la figura invidiabile, così come i tacchi altissimi. Intenta a mangiare avidamente pasticcini, «Ne vuole uno, dear?». No, grazie: oltre all’agitazione tachicardica che impedirebbe la deglutizione, per i motivi di cui sopra se Helen si sbriciola sul vestito risulta simpatica, se capita a me amplifica solo l’inadeguatezza davanti alla star. Quale corto le è piaciuto di più? «Li ho amati tutti, ma la regista brasiliana ha sfruttato il tema degli occhiali, che doveva essere inserito nella trama, in maniera sottile: li ha resi un cimelio del padre passato alla figlia. Tutti si possono identificare. Mi ha fatto venire in mente mio padre, che amavo moltissimo» (Vasiliy Petrovich Mironov, migrante russo che ha convertito il nome in Mirren, ndr).

Sebbene appaia naturale nel ruolo di mentore, racconta che «al college ho studiato da insegnante, ma ero davvero pessima, sono migliorata con l’età. È un processo a due direzioni: loro imparano da te e tu da loro. I giovani sono la mia ispirazione, mantengono alta l’energia, viva la mia capacità di sognare e l’idealismo. Anche alla mia età è fondamentale non pensare di avere tutte le risposte. Certo, ho fissato un paio di idee sulle questioni fondamentali della vita». Prosegue: «Nella biografia di molti artisti si trova spesso un insegnante come personaggio chiave. Nel mio caso la signora Welding, professoressa di letteratura, è stata la prima a guidarmi verso l’idea che sarei potuta diventare attrice». Un pensiero che forse non veniva facilmente alla figlia di un tassista e di una casalinga del West Ham londinese negli anni Sessanta. «Da quest’esperienza ho imparato l’importanza di dare fiducia ai più giovani, un compito pericoloso nel nostro mondo, dove ci sono schiere di talenti e opportunità limitate. Non bisogna credere a mantra tipo “basta seguire i sogni”».

Oggi sul palco i registi si sono sentiti professionisti per la prima volta: «Sensazione gratificante, io l’ho provata alla consegna dell’assegno per il primo lavoro a teatro, due settimane di recite. È bastato a malapena a pagare l’affitto! Dopo tanti anni, però, sono sempre emozionata di essere pagata per questa professione. Una delle cose più importanti che i miei genitori volevano trasmettermi era l’indipendenza economica. Ancora oggi sono fiera di guadagnarmi da vivere. Mia madre pensava che la recitazione fosse uno spreco della mia educazione, solo una volta entrata nella Royal Shakespeare Company le era parso uno stipendio regolare».

Per il 2016 ha nel cassetto due film: in Eye in the Sky è un colonnello a capo di una missione di droni con funzioni anti-terroristiche, mentre in L’ultima parola – La vera storia di Dalton Trumbo (in uscita a inizio febbraio) interpreta Hedda Hopper, celebre giornalista di gossip dalle idee maccartiste nella Hollywood anni 50. Il cinema ha ancora un potere politico? «Sarà sempre un mezzo influente e potenzialmente di propaganda. Perché un film sul grande schermo è coinvolgente anche fisicamente: si sente freddo se fa freddo nella scena, caldo se c’è il sole. Ti risucchia». È un mezzo potente come lo sono diventati i social media? «Sinceramente non sono uno strumento che mi interessa, soprattutto in senso autopromozionale. Però sono felice di essere stata testimone della rivoluzione di internet e mi spiace non vedere come andrà a finire. Trovo pazzesco che una mia foto instagrammata da uno sconosciuto sulla metro di New York sia diventata virale: se non me l’avessero detto non l’avrei mai scoperto. In un certo senso è liberatorio per chi come me ha dovuto imparare presto che non si può controllare la propria immagine né quello che le persone pensano di te».

Considerando diffusione e velocità di notizie e foto, rifarebbe oggi un film come Caligola (controversa pellicola erotica di Tinto Brass del 1979 parzialmente scritta da Gore Vidal, ndr)? «Certamente, ho amato l’esperienza sul set, non necessariamente l’intero film. Tinto era un regista radicale per la sua epoca, non guardate solo al fattore shock. Promuovendo il film, nelle interviste dicevo spesso: “Aspettate e questo lo vedrete in televisione prima o poi”. Et voilà, Il trono di spade alle otto di sera. La nudità ha cambiato significato, per quanto ad alcuni piaccia ancora parlarne come uno scandalo non lo è più». Mentre lasciamo il cinema le chiedo: e se potesse incontrare se stessa a quell’età, quale consiglio si darebbe? «Di darmi una calmata e non preoccuparmi perché alla fine si risolverà tutto. Di non essere pigra o arrogante, perché non sono e mai sarò il centro del mondo». Semplicemente una delle poche attrici che ancora ci tira fuori di casa per pagare il biglietto del cinema. Con una parolaccia, se necessario.

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Prime visioni: nuovi talenti alla prova sul grande schermo
Orson Welles diceva: «A uno scrittore serve la penna, a un pittore il pennello, ma un regista ha bisogno di un esercito»: nonostante l’avvento del digitale, la settima arte ancora richiede un gran dispendio di fondi e professionalità diverse. Per questo lo stilista Giorgio Armani, con la collaborazione di Luxottica e Rai Cinema, da due anni supporta i talenti emergenti nel progetto Films of City Frames. I registi migliori di quattro scuole di cinema nel mondo (con le rispettive armate di produttori, autori, operatori, direttori della fotografia...) hanno avuto l’opportunità di creare un cortometraggio che avesse al centro gli occhiali della nuova collezione Giorgio Armani Frames of Life: un elemento non puramente estetico, ma un motore della trama che veicolasse le emozioni dei protagonisti. Gli occhiali sono così diventati il legame tra padre e figlia (in Legacy della brasiliana Juliana Valente), la moderna scarpetta di Cenerentola (in Midnight dell’italiano Tommaso Bianchi), il ricordo del primo incontro (in I Love You del sudcoreano Sang-Ho Lee) e il simbolo di un’amicizia inaspettata in Clarity (dell’australiano Chris Sebastian Joys). Helen Mirren è stata ambasciatrice del progetto e una mentore costruttiva: «I registi giovani si concentrano troppo sul controllo, ma la difficoltà è mantenere la propria visione creativa mentre si allentano le redini di attori, sceneggiatori, costumisti: siate aperti perché una buona idea può arrivare da chiunque e dovete saperla riconoscere».