L'impegno civile di un giornalista che denuncia la mafia. Paolo Borrometi, 34 anni, è un siciliano appassionato, originario della bella Modica, in provincia di Ragusa, nota a molti per il commissario Montalbano. Vive sotto scorta dal 2014, quando per le sue inchieste è stato minacciato più volte e aggredito da uomini incappucciati. Oggi combatte ogni giorno con la sua personale paura: è direttore della testata Laspia.it e collaboratore dell'AGI – Agenzia Giornalistica Italia (si occupa principalmente di indagare sul fenomeno milionario delle agromafie). È uno degli autori di Io non taccio (ed. Cento Autori) ed è stato nominato Cavaliere dell'Ordine al merito della Repubblica italiana dal presidente Sergio Mattarella. Ha anche appena ricevuto la medaglia d'oro di benemerenza della Regione Sicilia. Soprattutto, però, Paolo Borrometi è un gentiluomo dall'animo profondissimo, che continua ad amare il proprio lavoro e lo racconta ai ragazzi nelle scuole con straordinaria efficacia. Noi raccontiamo la sua storia a 25 anni dalla strage di Capaci, dove sono rimasti uccisi il magistrato antimafia Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e tre agenti della scorta: era il 23 maggio 1992. (testimonianza raccolta da Laila Bonazzi)

«So che lei non mi rimprovera nulla, sono io a farlo con me stesso. Non sono riuscito a salutare mia nonna prima che mancasse. Un salto a Modica quell’estate l’avevo fatto, poi i miei cinque carabinieri mi avevano scortato verso Roma, dove vivo. "Se il tuo sogno è fare il giornalista, vai avanti", lei era l’unica a ripeterlo, mentre tutti si aspettavano diventassi avvocato, come mio padre e mio nonno. Sono cresciuto in una delle zone più belle della Sicilia, quella che Leonardo Sciascia, parlando con Gesualdo Bufalino, chiamava “provincia babba”, perché non aveva referenti nella cupola palermitana. Ma un territorio ricco come Ragusa aveva lo stesso la sua mafia, anche se in decenni di riduzionismo quella piaga era considerata “piccola cosa”.

Ricordo bene quel 23 maggio 1992, quando tutti gli adulti si erano radunati in silenzio davanti alla tv che trasmetteva le immagini di Capaci, mentre mio padre mi abbracciò e cercò di spiegarmi cosa fosse accaduto. Oggi so che devo alla mia famiglia i valori di legalità in cui credo, soprattutto a un nonno che per principio non difendeva mafiosi. Rimasi affascinato la prima volta che un’insegnate di liceo ci parlò di Giovanni Spampinato, giovane giornalista ucciso mentre cercava la verità, che Ragusa non ricordava per niente. Martire dimenticato della provincia babba. Presto mio padre intuì che la mia strada sarebbe stata diversa dalla sua, ma ha insistito perché mi laureassi comunque in giurisprudenza.

In principio fu la terza pagina de Il giornale di Sicilia. Mi occupavo di cultura e territorio, intervistavo chef e artisti della zona, come Piero Guccione. Ma è stato un messaggio su Facebook a indirizzarmi sulla strada delle inchieste. Così mi aveva contattato la madre di Ivano Inglese, trentenne trovato misteriosamente morto con sette colpi di pistola. Faccenda liquidata subito come una “questione di fimmine”. Ci siamo incontrati e tra le lacrime mi ha detto: «Mio figlio è morto e non ho avuto giustizia. Aiutami a trovare la verità, non è questo il tuo compito di giornalista?». Già, non era forse quello? Me lo chiesi anche io quella notte rigirandomi nel letto senza prendere sonno. Ho scritto qualche articolo ricostruendo le sue ultime ore di vita, siamo riusciti ad andare a I Fatti Vostri e a far riaprire l’inchiesta. Oggi la mamma di Ivano attende ancora di scrivere la parola fine e, dopo diversi anni, mi scrive ogni settimana e si preoccupa per me.

In quel periodo avevo deciso con alcuni amici di fondare una testata online per pubblicare liberamente le nostre inchieste. Con nomi e cognomi e, soprattutto, foto. Così, nessuno, vedendo quelle facce in piazza o al bar, poteva più dire “io non lo sapevo”. L’abbiamo chiamata La Spia, perché in Sicilia chi denuncia viene spesso denigrato, mentre per me era e rimane motivo di orgoglio. Mentre proseguivano le indagini sul caso Inglese, iniziavo anche a raccogliere informazioni sull’opaca gestione dei manifesti elettorali nel comune di Scicli. Sì, proprio la bella cittadina che tutti conoscono per la fiction del commissario Montalbano.

Il 16 aprile 2014 andavo, come tutti i giorni, a dar da mangiare a Bonnie, il mio cane nel casale in campagna, che quel pomeriggio era visibilmente irrequieta. Mentre riponevo la sua ciotola due uomini incappucciati mi hanno aggredito, torcendomi il braccio dietro la schiena. Sono caduto a terra tramortito dal dolore e sentivo i calci arrivare da ogni parte. «Non te li facisti i cazzi tuoi», urlavano. Saranno stati 40 o 50 secondi, ma non passavano mai. Piangevo, perché non sapevo come sarebbe finita. Oggi romanticamente voglio pensare che il merito sia di Bonnie, perché abbaiava così forte che tutti i cani dei dintorni hanno fatto lo stesso. Ancora non so chi fossero quei due o quale articolo li abbia spinti a farlo. Attendo giustizia e so che quel mozzicone di sigaretta ritrovato un giorno rappresenterà una prova.

Ognuno ha voluto dire la sua sull’accaduto: che me lo ero inventato, che era questione di donne, infine che me l’ero andata a cercare. Decisi di usare quei mesi di convalescenza con la spalla rotta per terminare l’inchiesta su Scicli, che si era allargata alla gestione della nettezza urbana e poi conclusa con lo scioglimento del comune per infiltrazione mafiosa. Non sono mancate le accuse, dolorose, di aver macchiato d’infamia la città. Nella mia testa le cose erano comunque drammaticamente cambiate da quel pomeriggio. Prima avevo sì ricevuto minacce telefoniche, la scritta “stai attento” sulla fiancata dell’auto, ma liquidavo tutto pensando fosse qualche cretino. Mai e poi mai me lo sarei aspettato. Cosa dovevo fare? Se avessi ceduto a quella legittima paura, nessuno mi avrebbe rimproverato nulla, le avevo persino prese. A fine agosto un altro spartiacque: hanno dato fuoco alla porta di casa dove mi trovavo con i miei genitori. Non si trattava più solo di me, stavo mettendo in pericolo la mia famiglia.

Il giorno dopo sono finito sotto scorta, senza sapere bene cosa significasse. Ne ho avuto un assaggio la sera successiva, quando sono uscito per andare al compleanno di un amico. All’ora stabilita è suonato il citofono, erano i carabinieri. Stavo per mettermi alla guida della mia auto. «Dottore che fa? Lei sale in macchina con noi». Solo allora ho toccato con mano quello che sarebbe diventata la mia vita. Ho pianto sul sedile posteriore.

Era arrivato il momento di cambiare aria, mi sarei trasferito a Roma. Ho visto spesso piangere mia madre e faceva male sapere che potevo farla smettere con una mia decisione. Io che sono un mammone esagerato. Il giorno prima della partenza mio padre mi ha dato un biglietto con scritto «mai giù, sempre su», dicendomi di guardarlo ogni volta che mi sentivo solo. Lo tolgo spesso dal portafoglio, perché come fai a non sentirti solo in una lotta più grande di te, in una città che non è la tua, lontano dai tuoi e dagli amici di sempre? Come fai a non avere paura?

A vent’anni volevo sposarmi e avere tre figli. A 34 ho cinque carabinieri che mi accompagnano alla porta ogni sera e che rivedo ogni mattina. Non possono costruire legami di amicizia, ma sono diventati inevitabilmente le mie figure di riferimento. Col tempo ho saputo qualcosa di loro, a volte scherziamo sulle partite di calcio. Mentre loro sanno tutto di me, perché nei fatti vivono la mia vita e ormai capiscono prima che parli se sono triste, felice, arrabbiato. È merito loro se non sono morto, anche di solitudine. Ho iniziato a programmare tutto in anticipo, a sedermi con le spalle al muro nei luoghi pubblici. Decisamente, in questa seconda vita, ho anche imparato ad apprezzare tutto di più.

Ho ringraziato di cuore il presidente del Senato Pietro Grasso quando mi ha telefonato, e Sergio Mattarella per la nomina a cavaliere al merito della Repubblica Italiana. Ma non credo lo abbiano fatto per me: penso fossero gesti rivolti a tutti quelli come me. Se questo mi è capitato è perché ero solo e le mafie colpiscono sempre quando si è soli. Perciò faccio squadra con altri giornalisti sotto scorta, come Giovanni Tizian, Michele Albanese, Sandro Ruotolo, Federica Angeli. Non mi sento certo un eroe, continuo a fare il mio lavoro anche se le minacce non si fermano: ho sporto oltre cento querele. Soprattutto da quando ho indagato sulla filiera attorno al mercato ortofrutticolo di Vittoria, denunciando le attività del clan Ventura.

Paolo Borrometipinterest
Getty Images
Paolo Borrometi con il Presidente Sergio Mattarella.

Quando mi chiedono se invidio qualcuno sorrido, mi vengono in mente gli innamorati che camminano mano nella mano. Invidio la loro libertà di amare. L’esperienza più bella me la regalano i ragazzi nelle scuole. Credetemi, quando spiego le connessioni tra i gruppi di criminalità organizzata o il business delle agromafie, che rende quanto se non più delle droghe, non guardano lo smartphone. Non si distraggono quando racconto la storia di Paolo Borsellino e Giovanni Falcone, del sacrificio della loro scorta. Di quando Falcone diceva: "La mafia non è affatto invincibile, è un fatto umano, e come tutti i fatti umani ha un inizio e avrà anche una fine". Con l’impegno di tutti».