Il movimento Women’s March ci serve ancora? O ha fatto la fine di uno smartphone bellissimo appena comprato, ma che l'obsolescenza programmata ha reso inservibile in pochi mesi, tanto da non poter nemmeno aggiornarne il sistema operativo? Domanda dolente, severa ma giusta, come dice il gergo del web. Come andarono le cose due anni fa lo raccontò anche a Milano Breanne Butler, una delle sette fondatrici di Women’s March (la prima a generare l’idea di chiama Teresa Shook). Sette donne che si erano unite – senza conoscersi prima, connesse tramite Facebook – per protestare contro l’elezione di Donald Trump perché durante la sua campagna aveva dimostrato in più occasioni di non essere esattamente un tipo sensibile alla dignità femminile, per dirlo con gentilezza. Breanne non è un’esperta di femminismo storico, tanto che a molte domande che le vennero poste anche durante un incontro alla famosa Libreria delle donne di Milano rispondeva candidamente di non essere competente in materia. Però le brillavano gli occhi quando raccontava il suo timore, la mattina del 21 gennaio 2017, di aver lavorato tanto per ottenere un flop e di come invece il peso che portava nel cuore si è sganciato ed è sprofondato ai suoi piedi vedendo un’onda rosa che emergeva dalle strade di Washington. Breanne Butler, come tutte le altre organizzatrici di questo movimento inaspettato, abbastanza estemporaneo, cercava di costruire una roccaforte in difesa dei diritti civili, non solo quelli femminili, di cui Trump sembrava un attentatore che avrebbe potuto influenzare il resto del mondo. Si stima che quella manifestazione abbia mobilitato circa 4 milioni e 600mila persone nel mondo ed è considerato ancora il più grande evento globale mai organizzato nella storia. Per fare una metafora spicciola, paragonabile a un film blockbuster che sbanca al cinema ovunque. E di cui forse l’errore più grosso che si possa fare è scrivere la sceneggiatura per il sequel?

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Sono passati due anni, Women’s March, che era già molto popolare, ha cercato di espandersi ulteriormente con più punti di riferimento nel resto del mondo, a volte senza bisogno di una sede ma solo mantenendo il contatto tramite occasionali newsletter che invitano le interessate a incontrarsi e parlare (anche davanti a un aperitivo, a Milano). Anche in Italia Women’s March si può contattare su un profilo Facebook dove ha solo 1900 follower, forse perché tutti i post vengono scritti in inglese (eh già, in Italia a non parlare l’inglese sono ancora in tanti). Ma mettendo da parte l’Italia, la stampa americana comincia a chiedersi cosa non sembri più così rivoluzionario o entusiasmante nello scendere in piazza in massa in questi termini, e in particolare sotto la bandiera di Women’s March. Dopo la valanga di lodi, infatti, in 24 mesi qualche polemica ha iniziato a inquinare la purezza dell’idea, un po’ per il gusto del disfattismo, un po’ perché non tutto può rimanere perfetto e senza incrinature. La rivista Tablet, ad esempio, ha pubblicato un’inchiesta molto lunga sulle presunte accuse di antisemitismo in cui sarebbe incappato il movimento. Rischio facile, negli Usa, quando ci si schiera a favore di qualcosa anche vagamente musulmano, ad esempio. Ma tanto è bastato per far defilare parecchi endorsement e sponsor prestigiosi. Tablet ha poi insinuato che in questi due anni Women’s March abbia sofferto di cattiva gestione e che i tentativi di tamponare gaffe ed errori con goffe comunicazioni alla stampa, vere e proprie excusatio non petita, abbiano solo messo in evidenza smagliature che in molti non avevano nemmeno notato.

Nonostante ciò, il 20 gennaio le donne scese in piazza per la Women's March 2019 sono state ancora un bel po’. Niente di paragonabile al 2017, ma un bel numero. The Cut ne ha anche intervistate quattro, assolutamente non celebri: “Le polemiche non hanno influenzato la mia decisione di andare, ma ero preoccupata per le accuse antisemite”, ha detto alla rivista Emily, una 20enne a Boston. “Sentivo ancora l’importanza di andare a sostenere il messaggio iniziale, però l'evento quest'anno è stato un po' disorganizzato. Molte persone sono andate via prima di iniziare a marciare perché non si capiva cosa stesse succedendo”. Emily ha poi raccontato che la parte più bella rimane comunque leggere gli slogan sui cartelli fatti in casa, che a volte sono geniali. Esther, 47 anni, ha partecipato a tutte e tre le marce perché per lei i problemi sono circoscritti nell’area di Washington mentre a New York, dove ha sfilato in questi ultimi due anni, va tutto bene. E comunque, “l’idea di marciare tutti insieme nello stesso giorno per me rimane importante”. Avni, 18 anni, quest’anno alla sua prima marcia, racconta che il momento più deludente è stato quando il corteo a New York ha incrociato un gruppo di sostenitori di Trump, quasi tutti maschi, e si è resa contro che nella folla in cui si trovava lei ce n’erano invece pochissimi (la foto del ragazzo che ha sfilato a Milano, che vedete sotto, è diventata virale proprio per lo stupore che ha suscitato anche da noi). Kaya, 20 anni, che ha marciato a Los Angeles è, fra le quattro donne intervistate da The Cut, quella che mantiene ancora l’entusiasmo intatto e che spera di vedere l’evento ripetersi anche l’anno prossimo. Insomma, non percepisce la delusione, ma sembra da invidiare. A pesare sulle teste di tutte resta però quel titolo di Tablet che fa male: Is the women march melting down? Ovvero: “La marcia delle donne si sta squagliando?”, illustrato da un iceberg fatto di parole che si sciolgono nel mare.

La delusione, già. Qualcuno ha accusato il movimento di aver anche divagato troppo sugli obiettivi. Forse allargarsi ai diritti Lgbt, e a qualsiasi altra minoranza che necessita disperatamente di solidarietà – ed è inutile negare che dopo decenni di battaglie niente vada veramente per il verso giusto per le minoranze – è sicuramente una legittimazione del concetto che i diritti civili si difendono tutti o nessuno, e che un risultato ottenuto per una categoria crea un precedente e va a vantaggio anche delle altre. Ma è anche vero che chi vuole stare in troppi posti finisce per non stare da nessuna parte, e nell’immaginario collettivo si è creata un po’ di confusione. Bel dilemma. Ma alla fine dei conti, quello che salta all’occhio, se solo ci si ferma a riflettere, è stata la mancanza di risultati, che purtroppo bisogna ammettere. No, non per colpa del movimento. È che mobilitare 4 milioni e mezzo di persone nelle piazze, molte con cappellini rosa con orecchie di gatto fatti a maglia, e far versare fiumi d’inchiostro sui quotidiani in affanno di ogni angolo del pianeta non è servito a evitare che, elezione dopo elezione, qua e là nel mondo spuntassero tante copie carbone di Trump. Casualmente o (fantapolitica?) per un progetto più ampio di cui non vediamo ancora i retroscena. Nel gennaio del 2017 avevamo paura che Trump lanciasse una nuova tendenza negativa, e questo alla fine è accaduto davvero. Forse perché Facebook ha fatto da sistema linfatico per connettere 4 milioni e mezzo di donne nel mondo, ma è anche il mezzo che ha favorito la campagna elettorale del presidente, in modi più o meno corretti. O forse perché averla chiamata "marcia delle donne" l'ha condannata a rimanere un evento con cui i maschi non si vogliono mescolare? O forse è stata profetica Breanne Butler, a Milano, quando ha detto che "possiamo pure far cadere Trump, ma restano sempre i milioni di persone che lo hanno votato"? Se né la piazza digitale, né quella reale possono più essere d’aiuto per raggiungere la gender equality, forse resta una sola via d’uscita, consiglia Tablet: votare le donne. Però bisogna far si che non siano – come si lamenta sempre Emma Bonino – piazzate in posizioni istituzionali, ma senza alcun potere. Qualcosa si sta muovendo?