DUE ANNI FA LA MIA VITA è cambiata per sempre. Posso vederlo nitidamente, posso sentirlo fin dentro le narici, il momento esatto che separa il prima (binari precisi, direzione scelta, qualche turbolenza qua e là), e il dopo (deragliamento).

Sul dopo, evito di sbrodolare in pubblico. Una questione di dignità, abbiamo tutti un prima e un dopo.

Anche se non si tratta mai della stessa ferita - la mia è piuttosto singolare - non sono certo la sola a dover rammendare pazientemente uno strappo.

Di parabole umane troncate ne ho incontrate talmente tante che ho imparato a stare al mio posto.

MA C’È IL PROBLEMA degli anniversari. E l’anniversario della mia lacerazione ha un’ora e un minutaggio precisi, è scritto nero su bianco sulle ricostruzioni degli esperti.

Riassumo. Sono le 21.42 del 13 novembre 2015. Sono a casa, fa caldo per un mese di novembre a Parigi. Muovo la testa al ritmo della musica che proviene dal palazzo di fronte, a meno di cinque metri dalle mie finestre.

Il palazzo di fronte si chiama Bataclan. È in questo preciso momento che sento dei petardi. Quasi tutti quelli che gravitano nel mio perimetro diranno poi di aver sentito dei petardi; quattro o cinque esplosioni lontane, in sequenza rapida.

Poi molte di più. A un certo punto a tutti è venuto il dubbio che non fossero dei petardi. Il passaggio minuscolo dove abito diventerà famoso grazie a un video (sì, qualcuno ha filmato quel luogo e quel momento): una ragazza appesa alla finestra, delle urla, gente che corre sparpagliata o che viene trascinata via agonizzante.

Quel video non l’ho mai guardato, non lo guarderò mai.

L’ORA CHE HA PRECEDUTO i finti petardi ho fatto cose normali, di una normalità che per molti mesi non avrò più. Ho persino provato a entrare a quel concerto, ma mancava il produttore che conoscevo, quello che mi timbrava il polso quando non avevo il biglietto.

Poi ho chiamato mia madre via Skype, anche lei ha sentito i petardi, la mia voce strozzata. Mi ha detto chiudi le finestre. Spegni la luce. Nasconditi.

Delle tre ore successive, quelle durante le quali due terroristi hanno tenuto una decina di persone in ostaggio di fronte a me, minacciando di far esplodere tutto, non parlo mai.

Non parlo nemmeno del mio vicino di casa, ucciso perché non è stato abbastanza rapido a spegnere le luci e a nascondersi.

DOPO QUALCOSA IN ME È EVAPORATO senza lasciare traccia. La mia gioia di vivere non è più che un arto fantasma, di quelli che fanno male la notte. Nei mesi successivi ho smesso di andare al cinema (non ci sono ancora tornata), di mischiarmi alla folla (la evito ancora), di stare troppo a lungo in un bar.

Ho imparato a riconoscere il pericolo, anche quando esiste solo nella mia testa. So sempre dove si trova l’uscita di emergenza, da che parte correre, dove nascondermi, anche quando vado dal panettiere o faccio finta di chiaccherare.

Mi rifiuto di essere una preda facile, di farmi sorprendere ancora. Il peggio lo tengo per me. Il peggio non va toccato, è il cratere di un vulcano sul quale cammino sui tacchi a spillo; una distrazione, il bisogno di guardare giù un istante e hop, sono già nella lava incandescente fino al collo.

DELLA SETTIMANA DOPO L’ATTENTATO ricordo pochissimo. Sono un automa, suonata come dopo una sberla troppo forte.

Non guardo i telegiornali, non so cosa succeda nella vita vera, dormo sul divano di amici (ci metteranno settimane, a finire di pulire le pozze di sangue davanti al mio portone), tento solo di restare a galla.

Mi aggrappo a tutte le mani che mi tendono. E poi, decido che il peggio è passato.

Non so ancora come funzioni in questi casi, nessuno mi ha spiegato che la sindrome da stess post-traumatico non è solo un elemento decorativo nei film sui reduci del Vietnam.

Quando rientro a casa, due mesi più tardi, il quartiere non esiste più, inghiottito da migliaia di fiori, candele e gente in lacrime. La prima cosa che faccio: annaffiare le piante.

È precisamente qui che mi metto a urlare, proprio quando, di fianco al vaso del geranio, trovo un bossolo. Sono certa di realizzare solo ora quello che è successo.

È STATO A CAUSA di questo proiettile che ho conosciuto André (il nome ovviamente è stato cambiato).

André è un poliziotto, ma non un poliziotto qualsiasi, lavora come investigatore alla direzione centrale della polizia giudiziaria di Parigi, sezione antiterrorismo.

È lui che mi ha interrogata, che ha recuperato il proiettile e provato a consolarmi. Dopo il nostro incontro, mi ha detto di scrivergli, se mi fosse tornato in mente altro. Gli ho scritto.

André mi ha risposto, lungamente, poi mi ha proposto di rivederci di fronte a un bicchiere di vino. André conosceva quella notte meglio di me, le sue mani avevano stretto ogive, bossoli, corpi straziati.

Ho pensato che fosse lui, il senso che cercavo in un evento che non ne aveva alcuno. Il senso dell’assurdo.

Quando mi ha baciata, mi è parso che André fosse un risarcimento per l’orrore. Poco prima di Natale, ha fatto le valigie ed è venuto a vivere da me, nel mio nuovo appartamento.

NON SO SE SIA STATO UNA VITTIMA collaterale del mio trauma o se sarebbe successo ugualmente, ma quando qualche mese più tardi gli ho detto addio, per la prima volta dopo molto tempo mi sono sentita più leggera.

Nessuno si sarebbe più alzato nel cuore della notte per andare a recuperare dei sospetti terroristi, per interrogarli, per sbobinare le loro conversazioni telefoniche.

Non avrei più visto nell’armadio il suo completo grigio, quello che indossava quando doveva annunciare una morte violenta (André si occupava solo di questo, di morte e violenza) a dei familiari ancora ignari.

Non mi sarei più chiesta cosa pensasse, quando assisteva all’autopsia di un adolescente. Ho lottato contro me stessa per chiudere questa relazione inquinata. Non rispondergli, non chiamarlo, dimenticare che avrebbe voluto un figlio da me.

Ci è voluto del coraggio, per rinunciare alla sola persona in grado di dirmi se, dove e quando la mia paranoia fosse fondata.

Per recidere un filtro di protezione necessario al mio equilibrio, per non avere più nessuna pistola nascosta nella libreria dell’entrata, accanto ai libri di sociologia che provavano a spiegare perché il mondo stesse andando a catafascio.

HO PROVATO UN VUOTO IMMENSO. Un buco nero. Ho ricominciato a sentire dei petardi esplodere in lontananza, a ingoiare il cuore a ogni rumore troppo forte.

Poi, è arrivata la rabbia. Mi sono chiesta se sarà così per sempre, se quando, fra molti anni, comincerò a dimenticare il superfluo, resteranno in me solo gli spari e le urla di quel 13 novembre 2015.

Allora, ho fatto l’unica cosa che so fare, ho scritto. Per ricordare quello che vedo tutte le settimane nella sala d’attesa dello psicologo specializzato in traumi di guerra e torture.

Per salvare i brandelli della persona che sono stata, e capire quella che sono diventata. Per raccontare di un amore che non è sopravvissuto al dolore.

Per dire che non se ne esce, mai. Che c’è un prima e un dopo, e nel mezzo ci sono ricordi che non aspettano altro che abbassiamo la guardia per metterci ko con un rovescio.

Il mio editore dice che è un libro necessario, che la memoria deve vivere. André ha lasciato l’antiterrorismo per la omicidi. Le mie insonnie stanno lentamente passando.