Tengo la sua foto proprio qui, sulla scrivania, qui dove lavoro, vicino al computer, e lo guardo tutti i giorni un po’, il mio ragazzo, mio figlio. Ogni giorno lo osservo, con l’idea, forse, di riuscire a capirlo di più, di ricomporre un quadro che conosco a menadito ma che in qualche modo ancora mi sfugge. Si chiama Ivan, il mio ragazzo. Ivan: era quello il nome che avevo sempre avuto in testa. Se sarà maschio, mi ripetevo, sarà Ivan o nient’altro. Ed è stato poi a partire da quel nome di cui un giorno gli avevo parlato, che un paio di anni fa per noi a un tratto il tempo ha ricominciato a correre su binari imprevisti.

Ero in cucina la volta che me l’ha detto. «Mamma, ti devo parlare. Non so come la prenderai», ha esordito. «Ma sappi che comunque la decisione è già presa. Se non ti piacerà, vorrà dire che in futuro saremo costretti a vederci di meno».

È così che Gloria, mia figlia, 21 anni compiuti da un mese, mi ha comunicato che lei, nel modo in cui l’avevo sempre conosciuta, presto non ci sarebbe più stata. E che il suo corpo, la sua storia, il nostro passato, sarebbero diventati quelli di Ivan. Di quel ragazzo che, prima con inconsapevolezza dolorosa, e infine con assoluta determinazione, lei aveva incominciato ad allevare dentro da quando aveva più o meno sei anni.

Avevo ancora le mani bagnate, mentre sentivo le parole arrivare. Ricordo benissimo, era febbraio. Gloria dopo cena era rimasta con me, avevamo rassettato insieme la tavola, io lavavo gli ultimi piatti, e in quel momento le davo le spalle.

«Sono finita nel contenitore sbagliato. Ho parlato con lo psichiatra. Ho visto un’endocrinologa. Sono transgender. Farò delle cure di ormoni. Tra nove mesi un’operazione». Mi vengono in mente brandelli di frasi. Una raffica di cose piovute tutte insieme dal nulla. Il tempo di girarmi a guardarla di nuovo e la quotidianità delle nostre esistenze faceva già parte di un programma diverso, una realtà dettagliata fino all’assurdo che, anche quella, mi aveva colta di spalle. Che altro dire di quel momento: le cose che non puoi immaginare, tanto fatichi a capirle che quando arrivano è come se ti colpissero al rallentatore. Mentre in realtà ti precipitano addosso.

E ciò che provi è una grande, grandissima emozione, difficile da definire ma molto simile a un forte calore. Per fortuna Gloria, almeno lei, sapeva già tutto, regole e condizioni. «Da adesso se vuoi puoi ancora chiamarmi con questo nome. Ma dovrai riferirti a me solo al maschile. Ci metterai un po’ ad abituarti, però questa è la norma cui ci dobbiamo attenere». E poi, c’erano anche altre cose. Mi stava informando che presto avrebbe cambiato voce. E le sarebbe cresciuta la barba. Io non lo so la faccia che ho fatto, ma le ho gettato subito le braccia al collo. Volevo toccarla, dirle quanto avrei sempre continuato ad amarla. Tutto ormai era già successo. Infatti, aggiunse, presto se ne sarebbe andata. Ma fino a quando fosse rimasta a casa, ancora per qualche mese, dei suoi mutamenti io non avrei visto nulla. Poi avrebbe cambiato città, studiato in un’università diversa, e lì finalmente sarebbe nato Ivan.

Come avevo fatto a non capire. È la prima cosa che mi sono chiesta. Che cosa non avevo voluto vedere dell’impacciata e schiva Gloria, che quando entrava in una stanza pareva volersi nascondere; che splendeva con la mente e si cancellava col corpo. A 19 anni aveva provato con un ragazzo: un angelo di gentilezza, per il quale però non si era mai messa una gonna. Con quel piccolo sorriso sempre abbozzato, di sé liberava poco o nulla. Benché una volta una cosa tremenda le fosse già uscita di bocca. Una sera era venuta sul mio letto, e invece che con il bacio della buonanotte si era presentata con una domanda: «Che cosa faresti tu se un giorno decidessi di morire?». Tua sorella e io ci butteremmo giù da un ponte, avevo risposto.

Sua sorella e io. Quando Ivan ha debuttato nella sua vita vera è incominciata la lunga veglia della nostra. L’accordo era che ci saremmo sentiti via Skype una volta la settimana. Avremmo guardato a distanza, così lui si sarebbe fatto largo senza dover spiegare nulla. Ma ogni volta che mettevamo giù, ci abbracciavamo in lacrime. Stavamo assistendo alla morte di Gloria. Dove avremmo sistemato i nostri ricordi? E lui, che uso ne avrebbe fatto? Soffrivo a immaginare quel terzo figlio mai partorito districarsi tra le perplessità sue e quelle degli altri, mentre si cambiava nello spogliatoio di una palestra, quando entrava nei bagni degli uomini. Per fortuna lui aveva una compagna, la ragazza che lo aveva amato da femmina e che ora lo aiutava a diventare maschio. Io invece ero da sola. Il padre se n’era andato da anni per scomparire nel nulla. E i sensi di colpa restavano tutti in grembo a me. Perché non mi hai abortito?, ha chiesto Ivan alcuni mesi fa. Perché, chiedo io, ho continuato così a lungo a struggermi per il vuoto lasciato da Gloria?

Il giorno in cui l’ho vista abbandonarmi per sempre è stato quello della mastectomia. Avevo raggiunto in clinica Ivan e fidanzata per riportarli a casa. Al momento di tornare alla stazione non avevo voluto essere accompagnata. Pioveva. Meno male, ho ringraziato, così ora sarò libera di piangere senza che nessuno se ne accorga. Come siamo adesso. Adesso io mi sento solo un poco più stanca. Ma ho imparato, ho capito che alla vita devi essere pronta a spalancare le braccia. Ivan invece, lui sì è diverso. Ha certi baffetti teneri che gli disegnano un motivo leggero sopra le labbra e una peluria acerba, ma una grazia mai trovata ai tempi di Gloria. Guardarlo mi piace. Nella foto è elegante. Cravatta, gilet, camicia immacolata, mentre versa lo champagne ha le mani sicure di un uomo. Ora studia, ha esami importanti da dare. Ho patito quando ha mollato la ragazza. Il loro tempo era finito e lui sentiva di avere orizzonti diversi. Almeno non lasciarla per mail, gli ho detto. E poi ho pensato, ma no, certo, ha fatto solo una cosa da maschio.