Uomini che odiano le donne. E no, con buona pace di Stieg Larsson e della saga di Millennium, non è solo finzione. Gli uomini di Hollywood non amano le donne, l’industria continua a perpetrare il sessismo nel cinema. Nonostante la forza dirompente di #metoo (che, per amor di precisione, non era relativo solo allo showbiz), nonostante il Time’s Up evocato da Oprah Winfrey, nonostante i movimenti #BlackDress e tutte le iniziative/tentativi di inclusione per avere sempre più donne protagoniste di film, realisticamente parlando. Hollywood continua a non amare la professionalità delle donne, prosegue nel mettere da parte la presenza femminile nei suoi film. Registe, sceneggiatrici, compositrici, fotografe di scena. E attrici, naturalmente, che restano comunque le più esposte alle primissime analisi. Non amandole, Hollywood cancella le donne nella maniera più sottilmente subdola: silenziandole. Le protagoniste femminili, quando sono in scena con gli uomini e c’è da dare il twist definitivo alla trama, solitamente non parlano ma fanno, se riesce, mero numero.

A rivelare questo sinistro particolare è stato uno studio del 2018, intitolato "Inequality in 1,100 Popular Films: Examining Portrayals of Gender, Race/Ethnicity, LGBT & Disability from 2007 to 2017" e pubblicato dalla Annenberg School for Communication dell’Università della California del Sud. Poco da girarci intorno: gli uomini hanno il doppio delle possibilità delle donne di avere un ruolo parlante attivo nel film. E il numero di donne che parlano nei film è addirittura sceso rispetto alle percentuali leggermente più speranzose del 2008 e del 2009. “Tristemente, è uno status quo. Manca l’impegno delle multinazionali dell’industria” aveva spiegato a Bustle la dottoressa Stacy L. Smith, co-autrice dello studio che ha analizzato i dialoghi dei film degli ultimi 10 anni per sottolineare come ci sia una evidente “crisi di inclusione” nei confronti delle cosiddette minoranze. Non è certo la prima volta che si parli della scarsa inclusione delle donne nel cinema: già nel 2016 uno studio sui film Disney e Pixar aveva evidenziato la sproporzione esagerata tra male e female characters. Persino in un cartone animato amatissimo come Mulan, dove la protagonista è una ragazza eroina e battagliera, i personaggi maschili parlavano più di lei. Senza scomodare animazione o che, persino in Pretty Woman la protagonista Julia Roberts ha meno dialoghi "edificanti" rispetto ai protagonisti maschili del film come Richard Gere o Jason Alexander. Per non tacere poi dei film premiati con gli Oscar dal 1996 al 2006 dove, secondo un'infografica virale postata anche da Olivia Wilde, la percentuale di donne che pronuncia almeno 100 parole in tali pellicole è assolutamente minima.

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Nello studio del 2018, le analisi dei dialoghi dei film sono state effettuate attraverso il Bechdel Test, che pur essendo uno strumento consciamente imperfetto è ancora uno dei più chiari quando si tratta di evidenziare la presenza femminile nelle sceneggiature e nelle pellicole che passano al cinema. È considerato uno standard di analisi della gender equality nei fiction-works (libri, film, serie tv etc) e prende il suo nome dalla disegnatrice Alison Bechdel che nel 1985 disegnò una strip dove faceva intendere, ironicamente, quanto il mondo del cinema e della critica cinematografica fossero dominati dagli uomini. Per una di quelle variazioni culturali che marcano le epoche, quello che sembrava un gioco di battute sarcastiche tra le due donne disegnate nella strip è diventato più grande di quanto promettesse. Per passare il Bechdel Test, un lavoro di finzione deve rispettare tre caratteristiche: 1) avere almeno due donne protagoniste, 2) farle parlare tra di loro, 3) che parlino non solo di uomini.

I dati parlano chiarissimo: i personaggi femminili parlanti nei 100 film più visti del 2017 hanno ricoperto il 31,8% dei ruoli. Non è andata molto meglio negli anni precedenti, dove comunque le donne si fermavano al massimo al 33% della presenza parlata sul grande schermo. I dati relativi al 2018 sono probabilmente in corso di raccolta, ed è utopistico pensare che la percentuale si alzi così tanto da marcare per la prima volta una vera gender equality nei film. Nonostante gli Oscars 2019 abbiano tentato una virata minima verso l'uguaglianza onnicomprensiva, sono stati troppo soft per marcare davvero il passo e fare la differenza. La politica "per non scontentare nessuno, premiamo tutti" è comodissima, ma profondamente settaria e sbagliata.

Donne, neri, asiatici, gay, lesbiche, disabili, sono tutti sottorappresentati quando non affatto presenti. Manca la fotografia della realtà. L’industria cinematografica è dominata dai maschi bianchi quarantenni eterosessuali: tutto ciò che esula da queste caratteristiche viene definito “minoranza”. Paradossale, perché in concreto le donne sono numericamente più degli uomini. Eppure sono inserite sempre nel concetto di minoranza, che oltre alla quantità sembra voler tristemente indicare anche una qualità più bassa dei ruoli interpretati dalle donne. Nei 100 film più visti del 2017, i protagonisti e personaggi maschili avevano con quelli femminili un rapporto di 2 a 1: per ogni donna, in scena ci sono almeno 3 uomini e tutti parlano più di lei. E solitamente il personaggio femminile è scritto secondo precisi canoni stereotipati che non devono assolutamente interferire con la brillantezza/intelligenza/eroismo del protagonista maschile principale. Figurarsi immaginare una donna afroamericana, o una donna asiatica, o una latina in un film. Sempre sui 100 film più visti del 2017, 43 non contemplavano una protagonista nera, 65 non includevano un personaggio femminile asiatico o asia-americano, e 64 non avevano una latina. E appena il 2,5% dei personaggi aveva una disabilità non nascosta, non pietistica, e soprattutto parlava. Altri numeri poco confortanti vengono dalle differenze di genere: solo un personaggio transgender è apparso tra i film top 100 nei tre anni dal 2014 al 2017. La rappresentazione LGBTQ+ è un abisso di percentuali risicatissime: appena 6 film su 100 usciti nel 2017 contavano personaggi gay, lesbiche, bisessuali o trans di almeno minimo rilievo. Ma siamo comunque nell’era dove stupirsi per Sandra Oh quale prima donna asiatica ad essere in nomination (e poi a vincere) un Golden Globe per la sua interpretazione in Killing Eve, è stato considerato normale. Il che rende il problema ancora più visibile: la bravura sarà sempre in secondo piano rispetto all’aspetto fisico diverso dal canone imposto. Che un’attrice fuori dallo stereotipo dominante sia incredibilmente brava in un ruolo diverso da quello della bella statuina, è ancora più destabilizzante.

Quando possono parlare, le donne devono comunque rispettare il canone che le vuole giovani, brillanti, accattivanti: per questo dai dati emerge che le donne che parlano di più sono i personaggi femminili tra i 22 e i 31 anni. Per gli uomini è diverso: rispettivamente, parlano di più quelli tra i 42 e i 51 anni, seguiti subito dopo da quelli immediatamente più giovani, i maschi dai 32 ai 41 anni. Che le donne siano protagoniste parlanti, dialoganti, interagenti su argomenti di ogni tipo anche dopo i fatidici trenta, è una percentuale talmente risibile da far inorridire una buona fetta di popolazione. È il triste paradosso del cinema americano: nel resto del mondo, fortunatamente, le cose sono un po’ diverse. Secondo un’analisi pubblicata dal Geena Davis Institute on Gender in Media, fondato proprio dall’attrice di Thelma&Louise per finanziare ricerche in campo cinematografico, tra il 2010 e il 2013 il paese con il maggior equilibrio di genere nei film è stato la Cina, seguito dalla Corea del Sud, dal Regno Unito, dal Brasile e dalla Germania. (L’Italia? Non pervenuta nelle ricerche). In un accorato intervento del 2013 pubblicato su The Hollywood Reporter, proprio Geena Davis aveva sottolineato la mancanza della gender equality nei film: “La norma è che per ogni protagonista femminile parlante in un film per famiglie, ci sono circa tre protagonisti maschili. Le folle e le scene di gruppo includono a malapena il 17% delle donne. La ratio tra uomini e donne protagonisti è sempre la stessa dal 1946” aveva scritto l’attrice. “Se poi ci aggiungi la ipersessualizzazione della maggior parte delle protagoniste femminili che sono in scena, e la mancanza di ambizione o di occupazione, ecco il quadro completo” aveva proseguito la Davis, concludendo di buon grado. “Stiamo effettivamente mostrando ai nostri figli sin dal principio che le donne e le ragazze non riescono a prendersi nemmeno metà dello spazio disponibile”.

C’è almeno una soluzione, non univoca, che possa finalmente spianare la strada ad una maggiore inclusività femminile, LGBTQ+, dei neri, degli asiatici, dei latinos senza dover per forza rispettare il manuale Cencelli delle minoranze? La stessa Geena Davis aveva dato dei suggerimenti che potrebbero cambiare la prospettiva: se si è scritto un progetto o una sceneggiatura, cambiare tutti i nomi maschili in nomi femminili per vedere l’effetto che fa. Di sicuro si saranno distrutti almeno un paio di secoli di stereotipi (maschili e femminili) ed è probabile che, con il cambio di genere, un personaggio diventi persino più interessante e profondo di quanto ci si aspetta. Una donna pompiere, tassista, pilota, due poliziotte insieme sulla scena del crimine. Come secondo suggerimento, imporre nelle scene di gruppo il 50% di donne davanti alla telecamera, per cambiare davvero la visione cinematografica sul mondo. E far sì che la finzione non sia un fake della società, ma la rappresenti in modo il più reale possibile. Dopo Time’s Up e #metoo, Hollywood sta rimettendo insieme i cocci e cerca di restaurare un’immagine mostrata in tutto il suo crudele maschilismo patriarcale. Ma non è così che si parla di vera inclusione delle donne e delle minoranze (gasp!) nel cinema. La strada è ancora davvero molto lunga e la vera battaglia, che passa anche dall'uguaglianza di trattamento salariale, è sempre in corso.