Il rigore corre sul filo della nostra conversazione telefonica. Che non è proprio una conversazione: lei preferisce parlare francese e, oltre ai 640 chilometri, c’è un’interprete tra di noi. Parte una domanda, s’inabissa, e dopo un congruo e riflessivo tempo di attesa torna la risposta. Precisa, concisa, circonfusa di serietà. Lou de Laâge, 27 anni ad aprile e già due candidature al César come migliore promessa femminile, fa parte di una generazione di nuovi attori no frills assai concentrati sull’obiettivo, a cui non è facile rubare qualcosa di più dell’essenziale o di diverso da ciò che sono sicuri di poter dire, assiomi come: «In tutti i film inseguo ruoli che non mi mettono a mio agio, che non mi calzano a pennello, cerco la sfida».

Io la sfida non la cercavo ma durante l’intervista un po’ l’ho trovata: dov’è Lou de Laâge fuori da questa sua saggezza atemporale? Qualcuno la ricorderà ne L’attesa di Piero Messina - al fianco di Juliette Binoche senza sfigurare - nei panni di una ragazza francese che va ad aspettare il suo fidanzato italiano nella casa di famiglia nell’entroterra siciliano. Giovane e conturbante in quel modo naturale che hanno solo certe francesi di razza. Tanto per immaginarla, le chiedo cosa stia indossando: «un paio di pantaloni e una t-shirt, che è poi come mi vesto sempre, voglio stare comoda e non mi piace essere impedita nei movimenti». Secondo me quello sui jeans comodi è un mito da sfatare, ma non credo valga la pena seccare l’interprete per tradurre il mio denim pensiero. Comunque Lou è in camerino, dove poi indosserà il costume di scena: la regista Mélanie Laurent, che con Cyril Dion è da poco assurta alle cronache vincendo un César per il documentario Domani, l’ha voluta nel cast di Le dernier Testament, la pièce tratta da uno dei romanzi più famosi di James Frey, storia di un Gesù contemporaneo che vive negli Stati Uniti.

La de Laâge, che pure si era fatta molto notare interpretando un’adolescente torbida, narcisista e manipolatoria al fianco di Joséphine Japy in Respire, sempre della Laurent, ultimamente sembra sensibile al richiamo del sacro, del religioso, o come vogliamo chiamarlo: dal 17 novembre sarà al cinema con Agnus Dei di Anne Fontaine - uno dei quattro film francesi che si contendono la nomination all’Oscar 2017 - che per buona parte si svolge in un convento di suore in Polonia. Ma no, Dio non c’entra. O meglio non nel senso un po’ ristretto che uno si immagina: «Io non sono credente. Ho avuto modo di avvicinarmi alla fede da un’altra strada. Un po’ tutti abbiamo questo problema, in cosa credere, non c’è nessuno che non vada cercando il senso della vita, che non si chieda cosa ci faccia qui... be’, personalmente l’amore per la vita me lo dà molto il lavoro che faccio, con cui sono obbligata comunque ad approfondire una conoscenza dell’uomo, delle persone e delle personalità. È quando recito che mi sembra di avvicinarmi alla fede».

In Agnus Dei il personaggio che interpreta, Mathilde, fa un percorso simile, ma lo prende da un’altra angolazione ancora: siamo alla fine della Seconda guerra mondiale, e lei è una studentessa di medicina in forze alla Croce rossa francese in Polonia. Un giorno viene a chiedere aiuto nell’ambulatorio una giovane suora: una consorella sta molto male e potrebbe non superare la notte. Mathilde le consiglia di rivolgersi alla Croce rossa polacca, ma dopo un po’ di tempo si accorge che la suora è restata lì fuori e prega in ginocchio sulla neve, instancabilmente. Mathilde allora accetta di andare al convento. La grave malattia della religiosa è in realtà un difficile parto podalico che l’aspirante dottoressa riesce a portare a buon fine con un cesareo, scoprendo poi che sono altre sei le suore incinte: un gruppo di soldati sovietici mesi prima aveva fatto irruzione nel convento violentando le donne per più giorni a più riprese. «Non c’è stato un momento particolarmente difficile della lavorazione, era difficile dalla mattina alla sera! Siamo rimasti per due mesi in questa piccola città polacca, Orneta, a tre ore da Varsavia, nel bel mezzo di niente. Giravamo sei giorni su sette, dodici ore al giorno senza soluzione di continuità. Faceva un freddo cane e tutti parlavano solo polacco, anche le attrici che interpretavano le suore, peraltro tutte di una bravura impressionante. Bisognava riuscire a trasformare questa fatica che aumentava sempre di più in qualcosa di positivo, in una forza».

L’alchimia è perfettamente riuscita e Agnus Dei è davvero efficace nel raccontare con delicatezza e potenza l’incontro di una giovane donna di stampo, come dire, illuminista - figlia di comunisti convinti - con le suore, ciascuna delle quali è una donna con le sue caratteristiche e i suoi motivi per essere lì. E tutte però sono accomunate da una reale spinta a onorare i voti che hanno preso e a trovare una via di mediazione tra la spiritualità della loro scelta, le sue regole ferree e l’enorme trauma che hanno vissuto. Per una volta fuori dal cliché del convento come ricettacolo di malvagità e orrori alla Magdalene, quello di Agnus Dei è un luogo dove il sacro e il profano finiscono per trovare un punto di incontro, anzi addirittura una virtuosa saldatura, visto che in qualche modo l’uno non può esistere senza l’altro. L’interpretazione della de Laâge colpisce perché è tutta a levare, intagliata nella misura dei gesti e delle espressioni. I dialoghi sono ridotti all’osso, restano solo quelli necessari. «Non mi posso dimenticare la prima volta che ho incontrato le attrici polacche. Era impossibile parlare per via della lingua, ma l’intesa è stata intensa da subito. Un’esperienza formidabile: c’era un parallelo tra quello che stava accadendo nella vita, nella relazione con le attrici, e ciò che giravamo».

CI SONO TRE CONCETTI CHIAVE che intessono il film, e sono molto interessanti da rilanciare a Lou de Laâge, che rispetto a Mathilde si considera «meno matura. La differenza principale tra noi è l’epoca. Nel ’45 diventavi grande prima e per seguire la tua strada dovevi avere il coraggio di affrontare vicissitudini più dolorose. Sono felice di essere nata ai miei tempi, che offrono moltissime possibilità». I concetti sono l’innocenza, la libertà di fare la propria scelta, la fedeltà. Per lei cosa significano? «Con l’innocenza si arriva sulla terra. Bisogna combattere per mantenerla, e per mantenerla bisogna evitare di fare del male. Ma poi c’è la cattiveria degli altri, che anche se vuoi non puoi evitare e te la prendi in faccia spesso e volentieri». Allude a qualcosa di brutto che le è capitato? «Niente di così brutto. Ma anche se fosse il contrario, non racconterei mai a lei dei fatti tanto privati». «Ben detto» dice l’interprete a tradimento. In effetti l’assertività severa della de Laâge ha il suo fascino, se uno non deve poi scriverla. Sarà meglio continuare coi concetti. «La libertà? Quella assoluta non esiste, ma in ogni caso credo sia molto legata alla trasgressione, cioè per essere libero devi procedere per piccole trasgressioni successive riguardo ai canoni morali e a certe idee preconcette. In quanto alla fede, sono fedele solo a me stessa». Questo l’ha imparato dai genitori, padre giornalista e madre pittrice: «mi hanno trasmesso il desiderio di ascoltare i miei sogni e di cercare di raggiungerli, perché se non riesci a renderti felice da sola, nessuno ci riuscirà per te». Il suo di diventare attrice parte da lontano: «Ero troppo piccola quando ho visto Monster. Sono rimasta scioccata. E ipnotizzata dalla capacità di Charlize Theron di rendersi irriconoscibile ». Per pagarsi la scuola di teatro ha poi fatto la modella per alcune pubblicità, tra cui una della Bourjois grazie alla quale si è guadagnata un’agente e ha iniziato a fare i casting. Ha già da raccontare dei bei successi cinematografici, tra cui Jappeloup di Christian Duguay, ma il teatro, con cui ha iniziato, non lo vuole mollare. C’è una linea, nel pieno della giovinezza. Un centimetro prima hai la sensazione di non aver cominciato ancora niente e un passo dopo sai che in qualche modo si è deciso già tutto della tua vita. Chiedo a Lou de Laâge da che parte sta. «Non credo a quella linea. Mi viene in mente mia nonna, una volta mi ha detto “ho cominciato a sentire di invecchiare quando ho compiuto 80 anni”». Già, forse neanche io credo alla linea. Forse ho fatto solo una domanda bella ma inutile.