Il suo viso bucò gli schermi italiani nel lontano settembre 1984, quando uscì al cinema C’era una volta in America. Deborah/Elizabeth McGovern prese tutto l’amore
grandissimo e romanticissimo del gangster Noodles/Robert De Niro e ne fece coriandoli per inseguire la sua vocazione di attrice a Hollywood. Era solo un film ma, diciamoci la verità, ancora oggi non glielo perdoniamo.

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Elizabeth McGovern come Deborah in C’era una volta in America

All’inizio, a interpretare quel ruolo doveva esserci Romina Power, ma poi Sergio Leone preferì gli occhi da cerbiatta e gli angoli smussati e infantili di questa ragazza dell’Illinois, trasferita a Los Angeles per seguire il padre, professore di legge alla Ucla (Università della California, Los Angeles) e che quattro anni prima, come fidanzata di Timothy Hutton nell’esordio alla regia di Robert Redford, Gente comune, si era già un po’ accomodata nella storia del cinema. E si era persino già guadagnata una nomination all’Oscar come migliore attrice non protagonista per Ragtime di Miloš Forman (il regista di Qualcuno volò sul nido del cuculo). Così, per completare il quadro: nello stesso periodo aveva come fidanzato Sean Penn. Fu l’anno prima che lui sposasse Madonna, e chissà mai che all’inizio non sia stata un ripiego, ma lei lo ricorda come un banale amore giovanile, una di quelle storie di transizione che non lasciano rimpianti. Poi, tra l’altro, recitò con Mickey Rourke e Brad Pitt, ed è chiaro che lavorandoci ancora un po’, neanche tanto, avrebbe avuto Hollywood ai suoi piedi. Non è accaduto. E guardandola cinquantenne affrontare il ruolo misurato di Cora Crawley nelle sei stagioni di Downton Abbey (il 24 ottobre uscirà in Italia il film, che ne è il sequel) sembra quasi di poter intuire perché: diversamente da Deborah, non era quello che voleva. Ha preferito sposare il regista Simon Curtis (che una volta ha definito «un ebreo adorabile, ma sedentario e grassoccio»), mettere su famiglia e condurre una vita quasi normale a Chiswick, Londra, cercando di impegnarsi nel teatro e di scrivere canzoni e incidere un disco ogni tanto con la sua band, Sadie and the Hotheads. Possiamo concepirlo, noi disposti quasi a tutto per una manciata di follower?

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Alan Gelati
Elizabeth McGovern nel ritratto scelto per la copertina del suo ultimo disco, The Truth.

Come si fa a diventare celebre da teenager senza perdersi nei labirinti dello star system?
Non ho mai accettato l’idea che essere celebre avesse la precedenza sulla mia intimità. Ho sempre scelto me stessa, una vita personale soddisfacente in grado di controbilanciare quella lavorativa. Anche se amo il mio mestiere e a volte ho dovuto supportarlo sacrificando un po’ di privacy, non l’ho mai annullata per ottenere i miei scopi. Ho sempre amato, del fare l’attrice, l’essere parte di un progetto da qualche parte nel mondo, e lavorare con gente con cui mi trovo bene e che vuole essere lì come me. Questa è l’intelaiatura su cui ho imbastito la mia carriera, e mi ha dato molta forza.

Mi racconti il meglio e il peggio di Hollywood secondo lei.
Hollywood per me è stata una strabiliante macchina per lavorare, e con artisti incredibili. Immagino di aver beneficiato di una grande componente di fortuna, ma me la sono proprio goduta. Però salvo solo il processo che sta tra “azione” e “stop”. E invece detesto ciò che accade quando non sei impegnato in un film, quel tipo di vita che annega nella passività, nell’attesa di una chiamata.

Funziona diversamente nel campo della musica?
Non molto. Il bello è creare e suonare, ma poi devi vendere. Pubblicizzare il brano, farlo arrivare alle persone e dover giustificare il fatto che per averlo devono pagare.

Cosa le è accaduto a un certo punto con la musica?
Ho registrato con la band dal 2007 ma avevamo iniziato a incontrarci prima. Ci divertivamo e basta. Poi il nostro album è finito nelle mani di un importante agente di Londra. Gli piacque e ci organizzò alcuni concerti bellissimi. Fu una boccata d’ossigeno, siamo stati la band di supporto per Mike + The Mechanics, e per Sting al Montreux Jazz Festival. L’ultimo album abbiamo impiegato molto tempo a farlo perché eravamo occupati, io portavo avanti altri impegni, ma alla fine è venuto fuori The Truth. E per ottobre è prevista l’uscita di McGovern & Mason, che ho inciso, invece, insieme a Ted Mason.

Potrebbe citarci il verso di una sua canzone, una delle frasi che le piacciono di più?
Sono contenta di farlo, perché penso che il senso di una canzone venga fuori al meglio una volta recitato. Sceglierei: “Costruisci un nido dentro di te, perché oltre a guardare il film della tua vita, devi poterci abitare dentro”. Non so se il significato è chiaro per tutti, ma io lo sento profondamente mio. Scrivere canzoni è il mio modo di imparare le regole per vivere.

E le note come le mette insieme?
Credo che le composizioni migliori siano in grado di intercettare, riconoscere e riprodurre i pensieri e il modo in cui si organizzano. E siccome per gran parte del tempo penso come un’attrice, vedo la melodia come un monologo. Un monologo interno che ha trovato la sua espressione musicale.

Cosa si può dire di diverso cantando o recitando? Il lavoro dell’attrice è sforzarsi di far vivere la voce interiore di qualcun altro. La musica, invece, in un certo senso sono io, con la mia voce. Attraverso di lei, rendo visibile a tutti il mio mondo personale. È una cosa che ancora adesso mi incanta. E la conseguenza più piacevole di questa differenza è che mi capita il contrario rispetto a quando recito: con la musica non mi interessa niente se la gente apprezza o meno, se il disco incassa o no. Faccio musica per il piacere mio e dei miei musicisti. Non penso di essere eccessivamente dotata e quindi devo lavorare come una pazza, e non ho chissà quali aspettative. Come va va e ne sono comunque felice. Di solito il pubblico è con questo stato d’animo che si connette.

Mentre abbiamo tutti un bel po’ di aspettative rispetto al film di Downton Abbey. Facciamo bene?
Fate benissimo. L’idea era costruire un film che regalasse agli spettatori esattamente quel che hanno amato nella serie e che si aspettano. Ci sono la stessa qualità dell’atmosfera, la gioia della messa in scena... Magari il tutto è stato girato in un modo più sofisticato, c’è molto più lavoro di produzione, ma fondamentalmente sarà il Downton Abbey che volete.

Come mai nel mondo imperversano i populismi ma sullo schermo e nelle serie tv, da Downton Abbey a The Crown, a Catherine the Great, la gente vuole intrattenersi guardando la vita delle élite?
Be’, è interessante provare a rispondere, in un momento in cui aumenta e si diffonde la povertà e si restringono, invece, le garanzie dei diritti civili, e in America è stato messo alla presidenza un miliardario che vive una vita sfacciatamente pacchiana. Non ne ho idea, non ha senso, per me. O forse è proprio per questo che piacciono i privilegiati?

Nel suo ultimo film, The Chaperone, tratto da un romanzo di Laura Moriarty, lei interpreta una donna matura che si fa sorprendere dalla vita. E lei da cosa si fa sorprendere?

Sono scioccata da quanto ancora mi stia divertendo. Mi sento bene nei miei fifties, e la storia che a quest’età una abbia già dato il meglio e si avvii alla rottamazione io proprio non la sto sperimentando. Immagino che anche in questo ci sia una componente di fortuna, ma di sicuro sono più consapevole. E questo stato di grazia è sorprendente solo perché i media hanno sempre raccontato la mezza età come metà di qualcosa. E invece mi sento viva, sexy, interessata a lavorare e a fare nuove esperienze. Sono molto grata.

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Barry Wetcher
Elizabeth McGovern e Blythe Danner in una scena di The Chaperone di Michael Engler

Lei ha fatto cinema e serie tv. Pensa che il grande schermo sopravviverà alla rivoluzione dello streaming, in un modo o in un altro?
Mi piacerebbe poterle dire di sì, ma non lo so. Il cinema al momento è minacciato dalle grandi major del fumetto che giocano con diversi tipi di linguaggio e una tecnica di narrazione semplicistica. Non mi dispero però, perché la vita per sua natura reagisce in modo positivo ai cambiamenti e i lavori migliori si intrufolano nei piccoli schermi in molti modi diversi. L’unica cosa che si può fare è essere aperti a nuove forme di comunicazione e a una nuova forma d’arte, peraltro assolutamente legittima. Penso addirittura che tutto quello che sta accadendo ci farà tornare a teatro e ai concerti. Perché tanto più la gente se ne starà sola davanti a uno show televisivo o si guarderà i film per i fatti suoi in macchina, in treno o in aereo, più sentirà la spinta a radunarsi per vivere un’esperienza collettiva. Abbiamo ancora bisogno di interrompere tutto e, semplicemente, stare insieme. La musica esiste per questo, e così gli spettacoli dal vivo. Quindi l’energia che adesso manca ai film che si vanno a vedere al cinema sarà convogliata nei teatri e sui palchi. Quanto alle sale cinematografiche per come siamo abituati a considerarle, non le vedo benissimo.

Lei era Moira nella versione di The Handmaid’s Tale del 1990. Cosa si ricorda di quell’esperienza, e che differenze trova rispetto alla serie attuale?
Quando ho girato quel film, ovviamente si trattava della stessa storia che oggi tutti conoscono dalla serie, e tra l’altro era maneggiata da un regista tedesco molto interessante, Volker Schlöndorff (quello de Il tamburo di latta, ndr). Non vedo da tanto quella pellicola e chissà che effetto mi farebbe adesso, ma so che è stata realizzata splendidamente in un mondo che non era pronto a riceverla.

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Elizabeth McGovern nel ruolo di Moira nella versione del 1990 di The Handmaid’s Tale diretta da Volker Schlöndorff.

L’impatto così forte che ha avuto la serie tv di oggi non dipende solo dalla qualità, ma dal fatto che ciò che viene raccontato presenta molti parallelismi con la realtà che abbiamo intorno. È interessante vedere come la stessa storia possa passare quasi inosservata o provocare una grande reazione a seconda del periodo storico in cui viene raccontata.

Lei ha due figlie ormai grandi. Che differenza vede tra le vostre due generazioni?
Be’, le ragazze di oggi rivendicano più cose per se stesse rispetto a quanto avessimo il coraggio di fare noi, e sono molto meno disposte a tollerare il machismo. Nelle relazioni e al lavoro.

Lei è americana ma vive in Inghilterra: ha un punto di osservazione interessante sulla Brexit. Come la sta vivendo e cosa ne pensa?
Quello che provo è il senso di una vera tragedia. Non sono certo un’esperta per affrontare la questione nei suoi dettagli, ma il mio intuito, la pancia, mi dice che in questo mondo dobbiamo unire, non separare e si tratta dell’unica strada percorribile. Il che significa che gli interessi economici devono essere il più possibile condivisi. È questo che ha fatto grande l’America, una convergenza di tutte le sue diverse parti, di tutti i suoi diversi Stati, verso un’idea di Paese comune. Dovrebbe andare nello stesso modo anche in Europa, e l’Inghilterra dovrebbe farne parte. m