“Trovate che le donne rendano più degli uomini?”, chiede durante una cena un ospite a Josephine Napier, direttrice di un grande istituto femminile in una prospera cittadina inglese. Lei, una donna di cinquantaquattro anni, alta e austera, con qualche ciocca grigia tra i capelli ramati, grandi occhi nocciola e un viso regale risponde: “No, non direi, ma con loro devo insistere più spesso affinché risparmino le energie”. Poco dopo, durante un’altra conversazione, aggiunge: “Se una donna è stata in grado di sedurre un uomo e possederlo, noi siamo inclini a rispettarla. Del resto, perché non dovremmo? Bisognerebbe rispettare sempre la capacità del prossimo”. E ancora: “Le donne non sono più restie degli uomini a rivelare la loro età…qui non serviamo mai gli uomini prima delle donne”.

Frasi moderne, certo, ma che in realtà risalgono agli anni Trenta, quando la scrittrice londinese Ivy Compton-Burnett (1884-1969) iniziò a scrivere i suoi romanzi, una ventina, prendendo apertamente posizione a favore del mondo femminile, delle donne che, come scrisse in More Women than Men, “sono sempre in cerca di uno sfogo per le loro energie”. Quel libro venne pubblicato per la prima volta anche in Italia nel 1950 da Longanesi e poi nel 1994 da Guanda col titolo Più donne che uomini (stranamente senza stravolgere il titolo originale) e in questi giorni in cui ricorre il cinquantesimo anniversario della morte, è tornato nelle librerie grazie alla Fazi Editore che ha deciso di ripubblicare tutti i romanzi della scrittrice britannica osannata da Virginia Woolf e da Natalia Ginzburg che amò, come scrisse, “in modo furioso”, perché nelle sue storie trovava “gioia e consolazione”, una chiarezza “allucinante, nuda e inesorabile”.

Come mai una delle scrittrici inglesi che molti, per il suo stile e sense of humour, hanno paragonato a Oscar Wilde e a Dorothy Parker, non è stata mai considerata come i suoi colleghi? Come non accorgersi dei suoi meravigliosi (e a suo modo unici) modi di “scioccare” i benpensanti del suo tempo compiuti da lei che ebbe una vita familiare complicata (sesta di dodici figli di un medico omeopata despota, due sorelle si suicidarono, un fratello morì da giovane) e che visse per trentadue anni con Margaret Jourdain senza sentire mai il bisogno di dichiararsi lesbica? Non ne sentì la necessità, è vero, e questo viene ribadito anche da Hilary Spurling nella sua biografia, Ivy when young, ancora inedita in Italia, ma delle tematiche che oggi definiamo con l’acronimo LGBTQIAPK (lesbiche, gay, bisex, trans, queer, intersessuali, asessuali, poligami e kinky), ne ha sempre parlato nei suoi libri senza mai nascondere nulla. In Più donne che uomini ad esempio, lo fa alludendo alla storia di due insegnanti della scuola o descrivendo l’amore di Jonathan, il fratello omosessuale di Josephine (sposato con una donna e con un figlio, ça va sans dire), per il fidanzato più giovane Felix. Poi, però essendo però gli stessi in un’epoca vittoriana ed essendo inglesi, quando il primo chiede all’amante: “Cosa direbbe tuo padre se sapesse della nostra storia?” – gli fa rispondere: “Non credo che usi le parole per tutte le cose”.

I suoi libri, come disse Alberto Arbasino, sono storie che devono molto al teatro classico o shakespeariano per gli intrighi, i drammi segreti, l’imprevisto che irrompe e sconvolge l’ordine costituito proprio come nelle migliori tragedie (la Burnett studiò lettere classiche e fece una tesi sulla tragedia greca), ma contengono anche la leggerezza e la leggiadria delle commedie più divertenti. Quei romanzi raccontano di un mondo che non c’è più e

sono spesso composti da dialoghi obliqui che li fanno essere sovversivi e più attuali che mai


“La mia felicità dipende dalle donne”, fa dire alla sua protagonista, la direttrice Josephine, una donna schietta e modesta, con le mani “sorprendentemente ingioiellate, vestita e pettinata in modo da esibire i suoi anni, anziché nasconderli”. Splendido, l’inizio del libro, quando le maestre stanno tornando a scuola e due di loro mostrano i diversi caratteri attraverso le reazioni a un affollato viaggio in treno. Quando Josephine dice a una di loro: “Suppongo che non abbiamo alcun motivo per opporci alla presenza dei nostri simili”, riceve l’aspra risposta: “Io ne avrei eccome di motivi per oppormi alla presenza di queste creature”. La più liberale di loro, Miss Luke, è tollerante nei confronti della gente sul treno, ma non per ragioni che sarebbero ben viste oggi: “Io rendo il doveroso omaggio che le persone altamente civilizzate – sì, è così che scelgo di definirmi – devono a coloro che vivono alla base della civiltà”. Per non parlare, poi, di quando fa dire a Felix, un bel ragazzo che sostiene di risultare aggraziato perfino quando è sciatto: “Il lavoro è troppo umiliante; non sono un cultore del moderno, mi atteggio a reduce dei tempi andati”.

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In questo, come negli altri suoi libri, non mancano, ovviamente, i colpi di scena, che può essere una morte (del marito di Josephine, Simon, che muore cadendo dalla scala “con la stessa discrezione con cui era vissuto”) come un arrivo (di Elizabeth, amante, di Simon, con la figlia Ruth) o decisioni improvvise (la nomina di socia della scuola di Maria Rossetti, titolare della cattedra di lingue moderne). Nessuno di loro dice di essere ciò che è realmente e dietro alla spessa patina del codice vittoriano si nascondono segreti celati per intere esistenze, ma non preoccupatevi perché verranno tutti fuori, uno dopo l’altro, tra pettegolezzi, silenzi e descrizioni di sguardi. Tra quelle pagine in cui, con lo stesso aplomb, l’autrice riesce a parlare di incesto come di fiori e giardini, lo stupore è sempre dietro l’angolo, pardon, è sempre dietro una fumante e immancabile tazza di tè. Quando, poi, però, invece di mescolarlo con il latte, si unisce all’umorismo più pungente e alla tragedia, beh, allora è impossibile davvero non sorseggiarlo con grande piacere fino ad esserne conquistati totalmente. Provare per credere.